L'URLO
Anche se oggi incominciamo a raccogliere i primi frutti di un processo di valorizzazione del made in Italy nel mondo – soprattutto nei settori alimentare, abbigliamento e arredamento –, siamo ancora lontani da una politica industriale che identifichi il made in Italy nella combinazione fra estetica e tecnologia “personalizzata”, tipica delle nostre PMI, a cui faceva riferimento lei nel numero precedente di questo giornale, ricordando che la SIR è riuscita a inventare nella meccatronica una “standardizzazione della personalizzazione”. Quali sono le iniziative che le istituzioni dovrebbero intraprendere perché questa specificità divenga una carta vincente dell’italianità nel mondo e qual è la battaglia di imprese come SIR per l’acquisizione di nuovi clienti in nuovi settori, per esempio?
La battaglia intrapresa da SIR e dalle piccole imprese in genere è combattuta unicamente contando sulle proprie forze, senza alcun aiuto esterno: si giunge anzi al paradosso d’incontrare, strada facendo, difficoltà e intralci creati da un sistema politico e burocratico che tende a rallentare le iniziative delle aziende, mortificando il nostro propellente principale, la voglia di realizzare. La ricetta migliore consiste nell’investire in nuovi prodotti e settori, commercialmente e tecnicamente, malgrado il momento di estrema sofferenza. Sebbene in televisione tutti continuino a rassicurare la popolazione che il peggio è passato, occorre comprendere che ci troviamo ancora nel pieno di una recessione drammatica. Il termine battaglia è quanto mai appropriato: questa crisi è paragonabile ad una guerra e la mia personale impressione è che sino a oggi abbiamo solamente spostato le truppe al fronte, trasferimento che ci ha fatto disperdere energie e finanze. Ma il vero combattimento, che prenderà luogo nei prossimi due o tre anni, perché questi sono i termini temporali in cui va correttamente inquadrato, deve ancora andare in scena: sarà una lotta senza pari, con l’aggravante che molte imprese non avranno più le armi per combatterla. E, anche se potranno disporne, saranno dardi spuntati dinanzi al subdolo nemico del cambiamento epocale.
Oggi, qualsiasi piccola e media impresa sta sopravvivendo, marciando esclusivamente con le proprie gambe: la stessa SIR ha affrontato di petto le avversità, avviando una serie di investimenti importanti non solo per superare lo scoglio, ma per avere nuova forza e potenza nel momento in cui tutto riprenderà vigore. Tra le tante iniziative, abbiamo dato vita a una nuova divisione per la produzione di impianti automatizzati nel comparto dei sanitari, denominata Sanitaryware DPT, che dovrebbe permetterci di divenire il secondo competitor mondiale nel settore; abbiamo poi aperto un’ulteriore divisione per la progettazione e la realizzazione di automazioni robotizzate nel comparto del packaging, fondando un vero e proprio reparto di Robotic & Logistic. A ciò si aggiungano gli investimenti per la standardizzazione dei prodotti più tradizionali, al fine di garantire da un lato una maggiore razionalizzazione e qualità, dall’altro una riduzione dei costi. Anche da un punto di vista commerciale, SIR sta ampliando i propri orizzonti, assumendo nuove figure chiave, che le consentiranno una maggiore internazionalizzazione e un crescente impatto sul mercato estero. Si tratta di sforzi importanti condotti, come quelli di tanti altri capitani coraggiosi, nel più assoluto silenzio: siamo abituati a rimboccarci le maniche e a cavarcela da soli, perché in noi si agitano il cuore e la mente dei veri imprenditori. Se fossimo sterili manager attenti solamente al bilancio, avremmo messo in atto la decisione più facile e comoda, tirando i remi in barca e ridimensionando drasticamente l’attività. Ma il vero imprenditore è caratterizzato da un profondo senso di responsabilità, verso la propria creatura e i propri dipendenti. In tal senso, SIR è orgogliosa di aver mantenuto inalterata la sua forza lavoro, ricorrendo come tanti altri all’esaurimento delle ferie regresse e in ultima istanza alla cassa integrazione, utilizzata quasi con pudore, con vergogna. Ma non possiamo limitarci a sfruttare gli ammortizzatori sociali passivamente, anche perché rappresentano una soluzione temporanea. Forse, osservando dall’esterno, si crede che gli imprenditori stiano qui ad aspettare che la tempesta passi: in realtà, a differenza dei politici, noi tutti invece di attendere abbiamo deciso di fare. Il coraggio di agire in queste situazioni è fondamentale, non bisogna farsi prendere da un atteggiamento passivo che non porta a nulla. Sul campo, a guerra finita, troveremo molti cadaveri: centinaia di realtà scompariranno, distruggendo professionalità e opportunità, ma soprattutto abbassando il livello di benessere di tutti noi. Il problema maggiore sarà rappresentato dalle migliaia di persone che non potranno più contare su un’occupazione certa, e ciò causerà notevoli tensioni a livello sociale. La forza lavoro del paese dovrà riappropriarsi di quei mestieri che anni fa sono stati abbandonati a favore dei lavoratori extracomunitari: il falegname, il muratore, l’operaio di fonderia. Ecco perché continuiamo a ribadire l’importanza del fare, la necessità di un risveglio collettivo, non solo degli imprenditori, in alcuni casi troppo appagati o addormentati sugli allori, ma di tutte le categorie.
Lei ha accennato al problema dell’occupazione e, quindi, ai nuovi mestieri. Possiamo dire che SIR è pioniera in questo perché, in realtà, inventando nuove soluzioni, dà lavoro a chi ama fare cose nuove, anziché restare sempre nei soliti schemi?
La capacità di uscire dagli schemi e di dare concretezza alle nuove idee dovrebbe rappresentare la caratteristica peculiare dell’imprenditore: ma a volte questa spinta interiore sembra assopita e appiattita, con la conseguenza che le aziende pian piano rallentano per poi fermarsi. È tempo di sostenere le nostre creature e condurle per mano verso la strada del rilancio, invece di giocare la parte dei manager in barca a vela, che si recano al lavoro qualche giorno al mese o che, come sanguisughe, hanno privato l’azienda di ogni forma di utile negli anni delle vacche grasse: signori, così è troppo comodo. Ma non dovremo solo combattere la crisi: i nuovi investimenti, la ricerca di nuovi prodotti e processi dovrà essere sostenuta anche nella fase successiva alla ripresa, sempre e comunque. Nulla sarà come prima, perché i paesi emergenti produrranno ciò che finora era di nostra competenza. Come potranno farlo? Semplicemente replicando le tecnologie che noi stessi abbiamo loro insegnato, esportando le produzioni all’estero alla ricerca dell’utile nel breve periodo. Poiché ci siamo trasformati in nazioni dedite solamente ai servizi, abbiamo perduto la capacità di realizzare a livello pratico, con la conseguenza che un bel giorno ci sveglieremo dal nostro grande sogno di benessere, scoprendo che la Cina è divenuta la fabbrica del mondo, anche per quanto riguarda le tecnologie avanzate, trovandosi così nella posizione di potere ricattarci pesantemente. Ma la vera sconfitta sta nel fatto che a farne le spese saranno le innumerevoli piccole e medie imprese che da sempre rappresentano il patrimonio inestimabile dell’economia italiana. Imprese che stanno soffrendo in silenzio in questi mesi di assoluta depressione economica, guidate da uomini che rischiano il proprio capitale, che amano il proprio lavoro e lo portano avanti con impegno e caparbietà, che danno occupazione alla nostra gente senza trasferire la produzione all’estero. Quelle stesse realtà che non hanno mai usufruito di aiuti, che non trovano spazio in televisione o sui giornali, che in poche parole sono costrette ad arrangiarsi: possibile che i nostri politici di destra e di sinistra non sappiano che la stragrande maggioranza dell’imprenditoria italiana sta vivendo questo momento senza uno straccio di aiuto? Ma non si rendono conto che l’edilizia, la ceramica, la meccanica, la robotica, la produzione di macchine utensili stanno conoscendo un calo drammatico di ordinativi? O che il distretto di Sassuolo, il primo al mondo nel settore ceramico, con migliaia di lavoratori a rischio, versa in grave sofferenza? Per le piccole e medie realtà, il governo non ha fatto niente: in compenso ha pensato di lanciare un corposo salvagente alle grandi multinazionali che da sempre ricattano la sfera politica con la minaccia di migliaia di licenziamenti. I famosi incentivi che ogni volta ci vengono propinati, tra l’altro ottenuti grazie al denaro dei contribuenti, vanno in massima parte a favorire gli investimenti in filiali produttive dislocate all’estero, che non fanno altro che diminuire il livello di occupazione nel nostro paese. E lo stesso vale per le banche, che nel 2009 pare raggiungeranno utili più importanti degli anni precedenti: già, perché i primi attori del disastro globale, gli inventori di quella finanza creativa che ha ridotto sul lastrico migliaia di risparmiatori e di realtà industriali, sono stati molto fortunati. Hanno potuto contare su uno stato che ha ripianato le loro malefatte con i soldi dei cittadini. In compenso, questi signori non si degnano di concedere alcun credito a chi desidera investire nello sviluppo per superare la crisi globale. Oltre al danno, la beffa quindi. Ma, dall’altra parte della barricata, c’è forse qualcuno che stia porgendo un paracadute di sopravvivenza a quella piccola impresa che rappresenta il 95 per cento del tessuto industriale del nostro paese? Nessuno, assolutamente nessuno. Pare che non ci sia alcun tipo di problema: la stampa e la televisione appaiono più interessate alle signore frequentate dal Premier che ai veri drammi di questa nazione; i sindacati sono ancora impegnati a richiedere aumenti contrattuali o a difendere i salari, senza chiedersi se domani le imprese ci saranno ancora; le associazioni di categoria sembrano assopite, incapaci di far sentire la propria voce, se non per quelle poche grandi aziende che in Italia si contano sulle dita di una mano. Forse la colpa è anche nostra: il tipico imprenditore è solitamente individualista, pensa a lavorare e non ha tempo per frequentare convegni a cui partecipano i soliti noti. Ma è possibile che nessuno riesca a udire la richiesta di aiuto che giunge dalle aziende, dagli artigiani e dai commercianti? È possibile che si pensi al rispetto delle direttive europee senza comprendere che è necessario imporre, come sistema Italia, il nostro volere e il nostro tornaconto almeno una volta? Forse la nostra classe politica non si rende conto che siamo noi i veri creatori e distributori di ricchezza: distruggendo il tessuto produttivo italiano, toglieremo ricchezza e benessere a un intero popolo, che non avrà più denaro per acquistare vetture o semplicemente per alimentare i meccanismi del risparmio, facendo sprofondare in una crisi ben più grave case automobilistiche e banche. Certamente esiste una parte del paese che non accusa minimamente la depressione: statali, parastatali, dipendenti comunali e altri settori del pubblico impiego sono stati aggrediti dallo tsunami in modo marginale, tra l’altro con posto di lavoro assicurato e stipendio inalterato. Ma ricordatevi, la vera ricchezza deriva dal produrre. Eppure, chi produce viene abbandonato al suo destino. Ci si ricorda di noi solo quando dobbiamo pagare le tasse: in quei momenti diveniamo importanti e indispensabili. Già, le tasse, tra cui l’IRAP, dovuta anche quando l’azienda è in perdita. La sua immediata e completa abolizione sarebbe il primo segnale di un cambiamento, ma sono certo che il nostro ministro dell’Economia, molto attento a rispettare i parametri imposti dall’Europa, si opporrà per il timore di un declassamento causato dall’aumento del debito pubblico. Ma perché la politica europea deve essere dettata da due o tre paesi (Germania, Francia e Gran Bretagna) mentre l’Italia deve sempre subire? Questa è una situazione straordinaria, di estrema emergenza, e dobbiamo davvero domandarci se vogliamo guarire il malato con misure drastiche o se al contrario vogliamo farlo morire.
Il sistema sembra tra l’altro favorire il peggioramento della situazione, grazie ad alcune trovate veramente indegne, utilizzate in alcune grandi aziende da manager arrembanti e privi di scrupoli, i classici personaggi dalle scarpe a punta, molto abili a condire la lingua italiana con altisonanti termini in inglese. La più astuta delle trovate consiste nell’acquistare impianti e macchinari in quantità importante, indebitare di conseguenza l’azienda e chiedere il concordato preventivo, rigirando i debiti sui fornitori, costretti a pagare gli errori altrui. Lo strumento del concordato serve poi a giustificare eventuali tagli all’occupazione: ho il chiaro sospetto che esso venga spesso utilizzato in perfetta malafede. A costoro, che ne abusano, andrebbe impedito di fare impresa: sarebbero anzi necessari adeguati processi penali, perché non è pensabile che questi imprenditori godano dell’immunità, o che vengano osannati alle conferenze come creatori di modelli di gestione o come edificatori di grandi imperi. La bella trovata si diffonderà a macchia d’olio, e i soliti furbi risaneranno e ridimensioneranno le loro aziende a costo zero, magari trasferendo la produzione all’estero: chi pagherà il conto saranno, come sempre, centinaia di piccole imprese, artigiani, commercianti e lavoratori. Questo è il mondo in cui noi operiamo.
Ma possibile che ministri e titolati esperti di economia non conoscano questo stato di cose? Ma in che mondo vivono?
Noi crediamo che sia necessario reagire immediatamente, cambiando strategia, aiutando ora e adesso il vero tessuto produttivo del paese, senza mezze misure, con azioni forti e lungimiranti, senza preoccuparsi di essere impopolari o controcorrente: la battaglia è appena iniziata e l’esercito va rifornito subito, per evitare che soccomba in pochi mesi. Quando ci si trova dinnanzi a situazioni straordinarie, si deve trovare la forza di superare i meri calcoli ragionieristici e buttare il cuore oltre l’ostacolo. Noi chiediamo ad alta voce, anzi urliamo, a governanti, forze politiche, banche e sindacati di occuparsi di noi, senza inutili elemosine, ma con aiuti veri e a lungo termine. Affinché il nostro enorme patrimonio di conoscenze non vada disperso nel vento, occorre creare incentivi e agevolazioni, di tipo fiscale e non, che perdurino per almeno due, tre anni e non per il solito e inutile paio di mesi. Occorre agire con lungimiranza, ideando strumenti che concedano alle aziende il tempo necessario per riconvertire la loro produzione, formando nuove professionalità all’interno. Vogliamo infine che venga data voce a tutti quei sani imprenditori che quotidianamente lottano e combattono, che hanno amato la propria azienda al punto da lasciarle l’ossigeno necessario per sopravvivere, rifiutando di spolparla intascando tutti i guadagni. Siamo stanchi di essere lasciati soli in trincea, stanchi di un sistema che aiuta i soliti nomi. Dobbiamo respirare a pieni polmoni e urlare con quanto fiato abbiamo in gola la nostra richiesta di aiuto, una richiesta densa di preoccupazione ma colma di sano orgoglio. Dovrà essere un urlo forte, potente e inequivocabile: l’urlo del piccolo imprenditore.