CYNTHIO: LA POESIA NON É UNA FACCENDA DI POETI

Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, scrittrice

Nella primavera del 1938 il poeta Osip Mandel’stam chiede di essere ricevuto da Vladimir Stavskij, segretario generale dell’Unione degli Scrittori Sovietici, per sollecitare un sostegno intellettuale al suo lavoro letterario, nonché un aiuto economico per lui e per la sua famiglia. Al termine di un colloquio fra i due, apparentemente cordiale, Stavskij redige una lettera in cui denuncia Mandel’stam al Commissario del Popolo, celebre istituzione delle purghe staliniane. Le conseguenze della denuncia si tradurranno in una condanna a trentaquattro anni di lavori forzati in Siberia. Mandel’stam morirà di stenti poco tempo dopo l’internamento.

Le motivazioni della sentenza emessa dai funzionari del Commissario del Popolo sono da ricondurre allo stile dei versi di Mandel’stam ritenuti, cito le parole testuali: “osceni e calunniosi contro la dirigenza del partito e tutto il popolo sovietico. La lingua è oscura, e complessa, manca l’elemento fondamentale, manca il temperamento, manca la fede”.

Il commento prosegue trascrivendo i versi più significativamente incriminati: “…questi versi non possono considerarsi modelli di chiarezza: Dov’è il gemito legato e inchiodato?/Dov’è Prometeo-della roccia soccorso e sostegno?/E dove è il nibbio, e la corsa giallo-occhiuta/Delle unghie, e il loro volo trasversale? […] Non capendoli mi è difficile recensire questi versi”. Non li capisce però li giudica. E ancora: “Mandel’stam non è un poeta, ma un versificatore [quale sarà mai la differenza?]. Sono poesie sovietiche? Sì, naturalmente. Ma solo nei Versi su Stalin lo percepiamo schiettamente […] alla domanda bisogna pubblicare questi versi? No, non bisogna”.

Insopportabile la poesia, l’opera in quanto tale, il poeta potrebbe anche convertirsi a composizioni più consone alla vulgata dominante. Ma è la Poesia a sfuggire alle intenzioni, anche le migliori. Ciò che noi chiamiamo poesia non è semplicemente un genere letterario. Riguarda in modo specifico e particolare il nesso che intercorre tra la parola, il linguaggio e il discorso raziocinante. 

Mandel’stam è stato faticosamente riabilitato in tempi recenti, molti anni dopo la caduta del muro di Berlino. A lui, in Russia, è stata intitolata una strada, mentre la sua opera, comunque, resta ancora oggi perlopiù inedita.

Basta semplicemente non pubblicare. Fare scomparire l’opera. Aloyse Cynthio de gli Fabritii è rimasto al bando per cinquecento anni. Una secolare negligenza ha riposto il suo Libro della origine delli volgari proverbi lontano dalla nostra memoria, per riconsegnarcelo oggi come caso editoriale per la casa editrice Spirali, la quale ha osato infrangere l’annichilente ossequio dell’accademismo italiano alla mortificazione moralistica di opere di valore.

Occorre, dunque, arguire che l’avversione nei confronti della poesia non riguarda soltanto i regimi totalitari. La sua problematicità supera i singoli episodi di dominio e coinvolge la relazione fra potere e arte. Il come si deve correttamente parlare, versificare, comporre attraversa la storia della nostra civiltà, anzi, sembra che ciò che noi chiamiamo civiltà sia una retorica che si struttura nella riduzione al guardiano unico: il pensiero logico discorsivo, chiamato logos, discorso, pensiero razionale, ecc. Un dispositivo linguistico efficacissimo con tante impersonazioni: personaggi papi, personaggi Stalin, personaggi poeti, i quali, questi ultimi se scrivono in modo trasparente, chiaro, (se si affidano cioè al dogmatismo testuale, se ripetono quello che già si sa) in modo confermativo, e se fanno spettacolo, ne avranno in cambio un palcoscenico sul quale esibirsi. Ma l’opera, no, quella deve rimanere sullo sfondo: uno sfuggente bisbiglio.

Cynthio ha versificato in lingua volgare, giocando sulle combinazioni colte e popolari, rendendo il suo poema un distillato di sfacciata raffinatezza, certamente di ardua lettura non solo per noi che lo riceviamo dall’oblio, ma anche per i suoi contemporanei.

Il Libro della origine delli volgari proverbi è una miniera della lingua italiana, ricca d’invenzioni e trovate. L’abbondanza dei termini è di per sé un atto debordante, irriverente di quella semplificazione discorsiva inquisitoria che annienta le sfumature. I proverbi di Cynthio sono favole allusive, buffonesche per chi legge, oscene per il censore. Nell’opera sembra prevalere la provocazione beffarda verso i poteri costituiti: dunque quello che un tempo si usava chiamare il contenuto (la separazione fra contenuto e forma è una storiella che riguarda la filosofia, non certo l’arte), ma per raffinatezza è lo stile ad essere straordinario in Cynthio: i proverbi sono il sapere dell’ovvio, il comune, la sentenza sulla bocca di tutti, il giudizio popolare, il cortile e la sua zoologia eretta a virtù sapiente. Cynthio prende i vessilli del potere costituito e ne ribalta i criteri di leggibilità, carnevalizza fuori dal calendario ufficiale il sapere-ordine costituito e ne fa un ludus, portando un ordine simbolico alla sua infunzionalità: alla sua insignificativa inservibilità originale. Un gioco in cui il dire apre all’inaspettato, al riso, all’avvenire in atto del narrare, sicché non apre ad altri poteri già pronti per istituire nuovi ordini nella sequenza cosmo-mondana del ciclo morte-rinascita. 

Per essere chiari, Cynthio non è un comico di partito, non è un demolitore critico della società in cui vive, e quindi di volta in volta favorevole alla rivisitazione rivoluzionaria o riformista, che dir si voglia, della politica e dello stato. Ragione, questa, che lo ha reso inviso a un numero estesissimo di suoi contemporanei e per ironia ha potuto contare su avversi estimatori, intimoriti dal suo dileggio. Cynthio è un moderno che non sarà mai di moda: inutile per la società, un miracolo per l’arte e per gli artisti. A differenza degli epiteontici generalizzati, Cynthio è un buffone per il piacere della buffoneria, inservibile al re, alla regina, e anche ai fanti. 

Mandel’stam non era un dissidente antistaliniano, a inquietare il regime era la sua opera, la sua scrittura oscura. Di Cynthio a un certo punto perdiamo le tracce, la sua opera apparentemente chiara è comunque oscura, non si presta a essere citata, è slittante, eccedente nel dilagare delle forme astruse dell’italiano. A sfuggire è lo scopo della sua beffardaggine. Il potere è un’esca, in cui solo gli osservanti si fanno catturare. Per che cosa e per chi scrive Cynthio? La poesia non è dunque una faccenda di poeti. Riguarda l’Altro e che altro incontri e intervenga in combinazioni ignote. I poeti si possono anche convertire e in quel caso scrivono secondo un canone, Mandel’stam lo farà senza ricavarne benefici. Cynthio resterà irriducibile.

Aristotele, molto prima di dittatori vari, aveva decretato quale fosse la misura-canone del valore dell’arte. Non essendo l’arte sfiorata dalla verità, e dunque non essendo uno strumento di conoscenza, non era da considerarsi pericolosa come lo era invece per Platone. Aristotele teorizza nella catarsi terapeutica delle passioni, e nel piacere alla maggioranza la destinazione principale dell’arte, il suo scopo, la sua innocenza. La neutralizza facendone un servizio di pubblica utilità.

La problematicità della poesia è irrisolvibile e supera l’avversione che i singoli regimi in modo più o meno efferato le rivolgono di volta in volta, caso per caso. E supera anche la dedizione dei singoli poeti. La filastrocca di un bambino esiste senza aspirazioni di sorta, tranne quella di venire cantata. Essenziale il Canto.

La lingua nel suo dirsi, la parola che appare non implica nessuna necessità, non è noumeno e neppure fenomeno che dominiamo. La potenza della parola è la forza che ci è data per vivere, null’altro, non è potenza d’oggetto e neppure sull’oggetto, non è potenza dell’Altro o sull’altro. Il linguaggio non è un nostro possesso, ci determina senza appartenerci. La poesia è questo parlare erratico, l’atto in cui la parola non si oggettivizza a strumento, a mezzo comunicativo destinato a significati riduttivi e lì costretti ad esaurirsi.

L’oscurità della lingua poetica che talvolta verrebbe decantata come virtù, altre volte come difetto, sembra infrangersi di fronte alla domanda: davvero esistono parole chiare? Le parole oscure sarebbero quelle che non sono contestuali a un codice? Se la poesia apre alla dimensione originaria del linguaggio, apre cioè a qualcosa che non ci appartiene come mezzo per determinare e definire cose, l’oscurità, in tal caso, non riguarderebbe il fare artistico poetico, bensì la definizione che il pensiero logico razionale dà del linguaggio che non ha introiettato un codice. 

La poesia mostra, esprime, indica che il linguaggio non è originariamente al servizio della significazione, è inesauribile al filo che tesse, ed è indeterminante al suo stesso dirsi.

La logico discorsività finalizza l’atto linguistico al sapere e alla conoscenza dell’atto stesso di parola, onde fornirne un sistema di significazioni. La parola poetica è enigmatica semplicemente perché non ripete il semantema, appare nella sua arbitrarietà inestinguibile. Non ha bisogno di verità né singole, né collettive, perché non è destinata a organizzare consenso intorno alla rivelazione.

La forza della poesia e dell’arte è di rendere manifesto che l’atto di parola come la vita non ha bisogno di giustificazioni per esistere. Un assoluto non sottoponibile a relativismo. Oggi si è soliti pensare alla poesia come apertura, come dimensione di apertura dello stesso pensiero raziocinante, una sortita, questa, di derivazione heideggeriana per non cedere ad una concezione totalizzante del linguaggio filosofico, scientifico, tecnico. La poesia dunque come suprema istanza, perché suprema apertura di singolarità di pensiero che si sottrae. L’apertura però non è rappresentabile e per questo motivo non è nemmeno ascrivibile all’arte.

Ma, ribadisco, anche in questo caso, comunque si volga la questione, resta un tentativo di arginare il mitico indistruttibile che ci accompagna per il solo fatto che siamo in vita, la sua insondabilità insignificante trova posto nelle categorizzazioni più svariate: follia, idiozia, selvaggeria, restando comunque una componente radicalmente estranea al dominio. Ammettere la poiesis comporterebbe ammettere l’inconsistenza di ogni forma di potere. Cynthio, nel suo rocambolare, sembra rendersi conto che: même la raison a des raison que la raison ne connait pas.