IL POTERE, L’ORALITÀ E LA SCRITTURA
A distanza di tanti secoli, intraprendere la lettura di un testo come il Libro della origine delli volgari proverbi di Aloyse Cynthio de gli Fabritii (Spirali) immette in una situazione a metà tra l’oralità simulata e il racconto. Probabilmente, la messa in stampa rende non sempre agevole individuare la voce e, in ogni caso, sembra che il ritmo sia quello del raccontare ciò che è stato raccontato. I proverbi, dunque, si presentano come una macchina sofisticata della ripetizione. Potrebbero farsi molteplici confronti e, forse, il più suggestivo è un salto quasi vertiginoso al Flaubert dei due copisti Bouvard e Pécuchet, che aveva l’ambizione e il desiderio di ricopiare il mondo. Tra le sue carte fu trovato un piano di lavoro intitolato Sciocchezzaio, che prevedeva l’elenco e la denuncia di tutta la stupidità umana. Dopo Gutenberg, queste opere “tagliano” la vocazione al racconto orale, e, in realtà, questo taglio era già avvenuto con Boccaccio, che scriveva: “Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato prencipe Galeotto”. Galeotto, secondo Gabriele Frasca, in La lettera che muore (2005), non è il nome di una persona, ma, come nel noto modello dantesco, indica la complicità dei lettori e allude al leggere assieme, quindi a una funzione collettiva. Fin qui, ci siamo mossi lungo una linea esterna di oralità e memoria.
Ma questo c’entra con Cynthio e i suoi proverbi? Impossibile non trovare nei proverbi passaggi simili al Decameron, anche se i modelli rilevati da Francesco Saba Sardi, nella sua eccellente prefazione, sono Aristofane, Menandro, Claudio, Terenzio. I proverbi, dunque, s’inscrivono di diritto tra i libri maledetti.
Censurato nei tempi antichi e moderni, Cynthio Aloyse de gli Fabritii scrive i suoi 41.999 endecasillabi in terza rima in concorrenza con l’Aretino, con Dante, con il Boccaccio di molte giornate del Decameron, soprattutto la terza, con Galileo Galilei, Giovanni Della Casa e il Leonardo delle “facezie” di un prete. Di Cynthio, una volta arruolato nel rinascimento carnale, non si sa più nulla e l’opera sua viene dispersa, anche se è presente in alcune biblioteche. I suoi proverbi comunicano un’Italia crudele e furbissima, in cui si campa gabbando il prossimo, e le donne sono maliziose e ingenue, come quella madre che pensa di essere costretta a insegnare l’ars amandi al marito della figlia, il quale, essendo stato respinto proprio da lei, si prende in una volta sola spasso e vendetta.
I proverbi si presentano al lettore di oggi come un’enciclopedia delle nostre radici. Colpisce che alla malizia si unisca l’ingenuità. Dopo il Seminario sulla Lettera rubata di Jacques Lacan, viene da chiedersi se non ci sia complicità tra le grossolane astuzie dei frati, delle donne e degli altri personaggi, anche se si tratta di un mondo arcaico e un po’ incantato, dove, tra selve e boschi, si banchetta per un’intera giornata e basta lo sguardo di una bella donna perché i sensi vadano in fiamme. È un mondo con istinti ancora primitivi, decisamente preconsumistici, dotato di un’immaginazione semplice e complessa, solitaria, quanto a consapevolezza, e corale, quanto a espansione dell’io e della propria affettività.
Da dove proviene, si chiede Saba Sardi, questa valanga di stravaganze, buffonerie e mostruosità? Dalle favole dell’antichità, ma anche dai racconti di cui il mondo è pieno. È un tumultuoso fiume di affabulazione, forse il lacaniano grande Altro. Il grande Altro, nell’elaborazione di Slavoj Zizek, filosofo di Lubiana, denota il potere in tutte le sue forme e anche il lato osceno, “fuori dalla scena”, ovvero il codice delle leggi non scritte o l’insieme delle convenzioni non sempre definite. Proseguendo per questa strada, l’inaffidabilità degli eventi delle favole e dei proverbi, invece di creare disorientamento, potrebbe anche essere la chiave per comprenderli meglio.
Il principio della fine del regime dello Scià di Persia, nel 1979, ebbe luogo ad un incrocio, forse un trivio, dove un cittadino rifiutò di obbedire all’ordine di un poliziotto. La notizia si diffuse in un lampo: l’uomo aveva smesso di aver paura del poliziotto, aveva smesso di aver paura del rappresentante del grande Altro. Qui, si propone che il grande Altro non è il potere dei Dieci, non è il Papa, non è Venezia, ma è l’incomprensibile caos proprio dei proverbi.
Gli storici francesi parlano anche di una necessità difensiva della Chiesa, che, sentendosi circondata da streghe e maghi, inasprisce le leggi della sua inquisizione. Analogamente, anche se in modo rovesciato, ed estremizzando quanto dice Saba Sardi sui motivi della censura, forse l’eccesso di difesa è dovuto non tanto alla licenziosità o al dileggio dei frati parassiti e approfittatori, quanto al mondo incontrollabile e caotico che i proverbi, nel loro insieme, propongono. Forse si tratta solo di letteratura orale, cioè di storielle che tutti conoscono e che alimentano il buon umore generale. Tuttavia, questa tradizione oscena e carnale è raccolta in un libro che la traduce in caratteri tipografici e leggibili, anche se non tutti i conti tornano. Quante copie potevano essere stampate e diffuse? Quanti erano in grado di leggere? Gli inquisitori lessero davvero i proverbi? Come mai in una sentenza successiva non si parlò più di brani da cancellare o da togliere?
Il tratto comune a ciascun momento di collasso del grande Altro, scrive ancora Slavoj Zizek, è l’assoluta imprevedibilità: niente di veramente grande accade, tuttavia, ciò che era percepito come motivo per obbedire, improvvisamente, funziona come motivo per non farlo. Non si metterebbe la mano sul fuoco su questa pur suggestiva osservazione, ma è certo che l’imprevedibilità nei proverbi esiste e apre uno strano paesaggio in cui regna la favola. Tuttavia, è del libro che i dottori inquisitori avevano paura. Il libro agisce come autorità, non è comunicazione orale, flatus vocis, ma si tratta di carta stampata, di verità trasmissibile in un contesto non orale ma autoriale, quindi, dotato di una sua autorità. Il funzionamento del potere, scrive ancora Slavoj Zizek, si basa sulla spaccatura tra la nostra consapevolezza della sua impotenza e la nostra credenza inconscia che sia onnipotente. Quello che spesso mi sorprende è che su cose delicate noi sappiamo tutto, anche se, poi, ci comportiamo come se non lo sapessimo. Nel libro I greci hanno creduto ai loro miti? Paul Veyne scrive che i greci ci hanno creduto nel modo in cui i bambini credono a Babbo Natale: da una parte, sanno che i regali li portano i genitori, ma, dall’altra, continuano a fingere che lo faccia Babbo Natale. C’è coesistenza, quindi, di svelamento e di occultamento della cosa. Slavoj Zizek scrive che il potere cambia faccia: prima, è minaccioso, poi, ad un tratto, è indulgente. Tutto questo ci ha portato a un confronto tra censura e proverbi.
Essere in ascolto significa essere aperti, al tempo stesso, dal di fuori e dal di dentro. Il senso, quando c'è, non è mai dentro, anche quando è scritto. Una voce dà il senso virtuale alle parole. A scrivere questo è un filosofo francese, Jean-Luc Nancy, nel libro All'ascolto. Non si sa quando il senso è percepito come una voce, viene, però, il sospetto che, ai tempi di Cynthio, il rapporto tra oralità e scrittura fosse ancora vivo e ricco di reciproci scambi e ausili. Non è che lui abbia scritto oralmente, ma è come se nelle orecchie avesse, in una sorta di cripto-amnesia, la letteratura orale.