UN PAESE DOVE LA STAMPA NON È LIBERA

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Qualifiche dell'autore: 
giornalista, scrittore e drammaturgo iraniano

Nel 1996 lei ha lasciato l’Iran e si è trasferito in Germania. Perché?

In Iran ho lavorato dal 1987 al 1990 al Dipartimento di musica nella City Hall di Teheran e dal 1990 al 1995, dopo aver pubblicato il mio romanzo più noto, The Symphony of the Dead, sono diventato redattore capo della rivista letteraria “Gardoon magazine”. Già ventisette anni fa avevo scritto un romanzo, che raccontava la storia di un famoso scrittore rinchiuso nella cella del carcere di Evin (la prigione di Teheran dove principalmente vengono rinchiusi i dissidenti) e sottoposto a quella che in Iran viene chiamata “tortura cinese”: gocce d’acqua vengono fatte cadere sulla sua testa, mentre è sdraiato e legato. Mostrai il libro a un editore che, dopo averlo letto, disse: “È un capolavoro, ma non lo pubblico, perché ti voglio bene. Se lo facessi, moriresti”. Quel libro non è mai stato pubblicato, cosa di cui ancora oggi mi rammarico. Successivamente, per avere scritto qualcosa che a qualcuno non era piaciuta, la mia rivista fu chiusa e io venni condannato a morte, nonostante la battaglia del mio avvocato di allora, Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003. 

Poi la sua condanna fu tramutata in sei anni di reclusione e venti frustate. Cos’è accaduto?

Mi trovavo ancora a piede libero quando Seyyed Mohammad Khatami, l’ex presidente iraniano, chiese d’incontrarmi e mi rivelò un segreto: disse che quando aveva saputo della mia condanna a morte, aveva subito pensato alla realizzazione di un progetto per la creazione di una commissione indipendente di revisione dei reati a mezzo stampa, proprio per evitare che io fossi condannato a morte. Era la prima volta che accadeva una cosa simile, in centosettantatre anni dall’esistenza della stampa in Iran. Fui il primo direttore di un giornale a essere processato davanti alla Commissione indipendente, che tramutò la mia condanna a morte in pena. In quell’occasione seppi che se avevo avuto salva la vita era perché molti anni prima avevo scritto un romanzo.

Convivo con un paradosso: uno scritto ha provocato sia la mia condanna a morte sia la mia salvezza. Io stesso sono un paradosso. Conduco una vita doppia: vivo in un mondo libero e parlo di libertà, e nello stesso tempo il mio pensiero va all’Iran, un paese dove nulla è libero e non si può parlare di libertà. Un paese dove la stampa non è libera. Nella seconda parte della mia esistenza vivo questa doppiezza, con un piede di qua e l’altro di là.