Sergio Dalla Val

  • Per l’antropologia la scena è primaria, non originaria, è illuministica e illuminata: nel deserto, o nella foresta, un viandante, magari un guerriero, ne incontra un altro. Nel silenzio, una smorfia, poi un gesto, forse un dono: ecco lo scambio, l’alleanza, poi la parola. Più tardi, per la linguistica, la parola stessa diventa un elemento che un emittente sceglie di scambiare con un ricevente. Baratto, dono, vendita che sia, in questo modo lo scambio è sottoposto al soggetto, diventa il rapporto sociale. Quando scambiare? Con chi scambiare? In nome della parità sociale, il principio di

  • Nel discorso comune, l’integrazione viene scambiata spesso con l’inserimento, il coinvolgimento, il completamento. Il termine “integro” viene inteso come ciò che è completo, indiviso, totale, addirittura puro. Così l’integralismo, il colmo della purezza, diviene quasi l’opposto dell’integrazione. E, spesso, l’integrazione viene temuta da chi ha paura di perdere la propria integrità.

  • Nel discorso occidentale la materia è sempre stata pensata come massa inerte e amorfa, in attesa di un’anima o di una forma che la vivifichi o la organizzi. Una materia soggiacente, sostanziale (pròton hypokéimenon, “soggetto primo”, la considerava Aristotele), sostrato base per il divenire, dunque esente da divenire. Una materia morta, di cui l’arte deve occuparsi o che deve subire una formazione, una materia al di fuori della parola, che deve significarla o formalizzarla. La linguistica del Novecento, per esempio con Louis Hjelmslev, ha cercato la materia nella

  • Avere le proprie ragioni”, “farsene una ragione”, “non sentir ragioni”: queste e altre locuzioni correnti presentano la ragione in una versione personale, soggettiva, sottoposta all’idea di padronanza. È la ragione subordinata alla facoltà, al controllo: ragione sociale, umana, politica. La ragionevolezza. “Ho bisogno di ragioni, per sottomettere la mia ragione” (Jean-Jacques Rousseau). E tutte le ragioni sono buone perché ognuno si limiti, deleghi, si rassegni, fino alla giustificazione suprema, la ragione di stato.

  • O la borsa o la vita? La borsa, la vita. Con la borsa che non si oppone alla vita, perché non è un sacco ma figura dell’apertura, come si quotano gli umani? Con quali forze, con quali denari, con quali titoli? Come si qualificano, si valorizzano, si cifrano le cose? Prendere quota, a bassa quota, la quota parte. Con la borsa della vita importa la quotazione di ciascuno, anziché il prezzo di ogni uomo. Altrimenti la quota diventa algebrica, risulta quoziente, frutto di una divisione algebrica, di un frazionamento.

  • Perché le cose si complicano? Tutto sembrava procedere in modo coerente, univoco, sistemico: una vita di calcoli a somma zero, di conti che tornano, ogni cosa poteva trovare una sistemazione. Certo, ogni tanto qualche cedimento, qualche indizio di crisi, ma poi tutto si aggiustava, in modo organico, funzionale alla totalità. C’erano le equazioni non lineari per fronteggiare il caos, i sistemi autorganizzantesi di Ilya Prigogine, la teoria morfologica per le catastrofi di René Thom e anche il battito di una farfalla in Brasile era preso nell’insieme, da quando Edward Lorenz lo aveva reso

  • Basta dare un’occhiata intorno e l’arte sembra trionfare: le grandi mostre si riempiono di visitatori, le città “d’arte” traboccano di turisti, le banche fanno a gara per finanziare i restauri di palazzi, porte e chiese, anche a Bologna, dove i cittadini con una sottoscrizione senza precedenti salvano dalla rovina la Basilica di Santo Stefano. A prima vista, tutti amano l’arte, tutti vogliono che la città sia bella, e le associazioni s’impegnano per questo con il volontariato. Anche per la cultura, c’è un gran daffare: i dibattiti si moltiplicano, gli incontri internazionali fungono da

  • Non c’è limite al peggio. Cercando il proprio limite, che stabilirebbe la sua certezza soggettiva, il soggetto trova il peggio come colmo del male. Di male in peggio. Così ognuno spera nella fine, per esempio della difficoltà o della crisi, e cerca nel peggio il limite personale e soggettivo. Il peggio è passato, il peggio ha da venire: rappresentazioni del tempo, con il bene e il male posti dinanzi, anziché alle spalle. Allora, tolta l’aritmetica del fare, secondo cui s’instaura il ritmo, c’è chi fa soltanto sperando che tutto vada bene, nel modo algebrico, e chi fa soltanto avendo

  • “Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina il tuo cibo” (Ippocrate). La considerazione che il cibo è decisivo per la salute, indicata dalla medicina ionica di Alcmeone e ancor prima dall’ayurveda indiana, era stata colta anche da Ippocrate. Ma il medico greco l’ha moralizzata con l’invito a nutrirsi di medicina (“che la medicina sia il tuo cibo”), dunque a sottoporsi alla medicina come necessità di vita. Da allora, se la medicina è il cibo, essa diviene il modello del cibo, si pone come il cibo perfetto, il cibo sano, cui ogni nutrimento, magari buono ma non sempre salutare, deve

  • Ognuno ci spera, ci pensa, ci prova. Ognuno ci crede, ce la mette tutta, s’impegna, anche oltre le proprie possibilità. Fa tutto per bene, fa tutto per il bene, proprio e degli altri. Ognuno sa cosa è bene fare, e persegue la riuscita, dando il meglio di sé. E si pensa, si conosce, conosce i suoi limiti e le sue possibilità, sa fin dove può arrivare. È bravo, fa bene, peccato che non sia riuscito, ma ce l’ha messa tutta, fino all’ultimo. All’ultimo, comunque, tutto si risolverà. Ognuno crede nell’ultimo, nell’ultimo sforzo, nell’ultimo minuto, nell’ultima battaglia. L’importante è che le