IL BILANCIO PER UN'ALTRA EUROPA

Quando si
parla di fondi strutturali europei a favore della Polonia, occorre tenere conto
che la raccolta di denaro da parte dell’Unione europea avviene tramite i dazi
doganali, mentre in precedenza, prima del trattato istitutivo della Comunità
europea, le dogane incassavano per conto dello stato. La Polonia è riuscita a
ottenere una parte cospicua di fondi perché si è avvalsa con precisione delle
normative, come in passato l’Olanda, e partecipa ai cosiddetti paesi virtuosi, che
richiedevano il 100 per cento dell’importo ottenibile e lo spendevano con
adeguata rendicontazione. Diversamente dall’Italia, che chiede il 30 per cento
dei fondi disponibili e ne rendiconta meno della metà. Così l’anno dopo, nel
giro successivo, i contributi non le vengono più concessi.
La Polonia è
favorita da un’ubicazione geografica importante, ma ha anche compiuto i passi
giusti. Nel 2014, alla presenza di Angela Merkel, è stata inaugurata la One
Belt One Road, la nuova Via della seta, una ferrovia che dal centro della Repubblica
Popolare Cinese arriva a Duisburg, importante porto fluviale della Germania
centrale. Dapprima erano stati previsti due treni alla settimana, ora già cento
treni alla settimana attraversano la Cina, il Kazakistan, la Federazione Russa,
la Bielorussia e la Polonia, l’unico paese dell’Europa centro-orientale prima
di sbarcare in Germania. Questi treni in gran parte sono climatizzati con
sistemi particolari, perché trasportano dalla Cina alla Germania l’elettronica
di base che ormai si produce solo in Cina. Arrivati a Duisburg, i vagoni
ripartono carichi di automobili, macchinari e impiantistica e arrivano nel
cuore della Cina dopo quattordici giorni e dopo varie fermate, compresa la Polonia.
Nessuno ne parla, ma nel 2020, se questo programma cinese andrà avanti, la
fermata finale sarà Venezia, per poi raggiungere tutto il mercato Nord-africano
e l’Africa intera che, insieme alla Siberia, com’è noto, sfamerà il pianeta nei
prossimi decenni. Già Plinio il Giovane, quasi duemila anni fa, scrisse: “Beato
il continente africano, perché ci sfamerà”. L’Africa sarà la nostra risorsa.
Oggi l’Africa ha un tasso di crescita enorme: la città più popolosa al mondo è
Lagos, in Nigeria, che ha venti milioni di abitanti. Ne aveva meno della metà
vent’anni fa. Questo e altri paesi africani hanno tassi di natalità incredibili.
Gheddafi, nel discorso di Roma del 2006, aveva affermato: “Se non create le premesse
perché gli africani lavorino nel continente, perché restino nel continente,
anziché sfruttarli semplicemente, v’inonderanno, perché sono centinaia di
milioni di affamati e inferociti”.
Il senatore
Giovanni Bersani, morto lo scorso anno, era l’italiano, anzi l’europeo, più
famoso in Africa. È stato per quattordici anni presidente della seconda
convenzione di Lomé, che, come la prima, regolava i rapporti tra l’allora
Comunità Europea e l’intero continente africano. Già negli anni ottanta,
Bersani tentò di trapiantare e radicalizzare in Africa tecnologie e esperienze
produttive, lasciando il segno su iniziative come il Sedec, l’equivalente della
Comunità Europea in Africa. Il Sedec raggruppa sedici paesi in tutta l’Africa centrale
con un tribunale, una corte di giustizia e varie commissioni. Dal canto suo,
Gheddafi creò l’Unione Africana, altra prova che l’Africa sta andando di corsa.
Resta però il problema dell’incidenza dello sfruttamento da parte di paesi
occidentali: le piantagioni di caffè africane, per esempio, sono quasi tutte
riconducibili, tramite fondazioni e trust, alla famiglia reale svedese; gli
olandesi controllano le piantagioni di tè, oltre a molte materie prime; terre
rare e minerali preziosi per l’industria elettronica sono quasi tutti in mano ai
cinesi, agli olandesi e ai tedeschi. A questa vampirizzazione dell’Africa fanno
molto comodo i dittatori alla Bokassa, perché si lasciano corrompere facilmente:
concedono risorse a tutto spiano e firmano appalti importanti in cambio di
aerei e armi. Il problema dell’Africa siamo noi, che stiamo generando questi mostri.
Se prima usavano i cammelli e ora vediamo l’Isis scorrazzare con i pick-up
della Toyota, dobbiamo chiederci come siano arrivati lì decine di migliaia di
pick-up. E se i porti da cui partono gommoni e barche di emigrati sono una
decina è così difficile stroncare il traffico delle navi? Ma l’Italia da queste
immigrazioni ha tratto molti profitti: l’anno scorso ha ricevuto quattordici
miliardi di euro dall’Unione Europea. È possibile che noi abbiamo speso
quattordici miliardi di euro per i migranti?
Tornando
alla Polonia, con questo paese di trentotto milioni di abitanti l’Italia ha un
saldo attivo nell’export, cioè esporta cinque miliardi e mezzo di euro, per
importarne quattro e mezzo circa. È vero che la sua economia ha tratto molto
vantaggio dai finanziamenti dell’Unione Europea e dal bassissimo costo della
manodopera, ma la Polonia presenta lo stesso problema che affligge un’infinità di
paesi, e su cui i cosiddetti esperti s’imbattono regolarmente: le indagini di
mercato e le inchieste vengono condotte nelle metropoli e nelle grandi città,
pochi si avventurano nelle province e nelle campagne, perché è costoso, lungo e
faticoso, soprattutto per l’indifferenza della gente alle domande poste. Questa
discrasia ha tratto in gravi errori di valutazione il governo della Gran Bretagna
a proposito della Brexit, ma anche la Francia, l’Italia, l’Iran, nella cui
capitale sembra di essere a New York, ma a 100 chilometri di distanza si
sprofonda nel medioevo. Se pensiamo che solo nove milioni di iraniani su
ottanta vivono a Teheran, capiamo i motivi che stanno alla base dei risultati
elettorali.
Anche in
Polonia, il voto è per lo più espressione della popolazione contadina,
prevalentemente conservatrice e chiusa, come tutte le civiltà contadine del
pianeta. Questo spiega la diffidenza nei confronti dei migranti e perché questo
paese molto cattolico abbia paura di perdere le proprie tradizioni e l’identità
nazionale con l’arrivo di musulmani, ortodossi o esponenti di altre etnie e
religioni. Nonostante il tasso di disoccupazione sia inferiore all’8 per cento,
s’insinua la paura che i nuovi arrivati possano usurpare il posto di lavoro ai
propri giovani. È un problema che in precedenza ha toccato l’Ungheria, il più
debole fra i paesi dell’Europa centro-orientale, perché era quello meno
industrializzato rispetto, per esempio, alla Repubblica Ceca o anche alla
Slovacchia. La Polonia era sempre stata un paese con forte tradizione
industriale, mentre l’Ungheria, con meno di dieci milioni di abitanti, era il
paese sicuramente più debole di tutto il gruppo, e questo poi ha spiegato il
successo di Vicktor Orbán, il primo ministro che ha vinto anche le scorse
elezioni. Quando l’Ungheria entrò in una crisi finanziaria e l’Europa minacciò l’intervento
della Troika, cioè del Fondo Monetario, della Commissione e della Banca
Mondiale, tutti ci ricordiamo che Orbán andò a batter cassa da Putin.
Oggi
l’Europa è spaccata in più parti. L’errore forse è stato l’accordo istitutivo,
la grande riforma, nata già vecchia, perché partiva dal presupposto di trarre
legittimazione dalle regole. Bruxelles è diventata un leviatano, un mostro
ingovernabile e ingovernato a causa del proliferare delle regole, che servono
per ricavare potere e denaro. Complessivamente escono 32.000 gazzette all’anno,
un numero enorme, in tre serie: la serie C, la L e la S, quella degli appalti,
che da sola pubblica più di 80.000 appalti e bandi di gara. Legali mostruosità,
con moltissimi provvedimenti in contraddizione l’uno con l’altro anche su temi
molto importanti. Così l’Europa è ripartita in aree, come quella legata al
Mezzogiorno (Malta, Cipro, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, anche se l’Italia
cerca di uscire da quest’area per accreditarsi tra i paesi importanti dell’Unione).
Poi ci sono le repubbliche baltiche e le repubbliche del Nord, composte da
paesi protestanti a forte connotazione burocratica, dove le regole sono un
fattore importante, dove si è stabilito un asse franco-tedesco. Poi c’è tutto
il fronte, fortissimo, dell’ex Europa centro-orientale, con una Repubblica Ceca
più protestante che cattolica, la Slovacchia, fortemente cattolica, come la
Polonia, e poi l’Ungheria, con una maggioranza cattolica determinante (anche
per l’autorità del cardinale primate), ma anche con una chiesa ortodossa
abbastanza influente e una considerevole comunità ebraica. Quindi vediamo
un’Europa “spacchettata” almeno in quattro, per cui su temi importanti della
vita sociale (aborto, omosessualità, immigrazione e altro) un folto gruppo di
paesi la pensa in maniera completamente diversa dalle scelte etiche stabilite dalle
burocrazie centrali. Pensate che non è mai stato sciolto il patto di Visegrád,
quasi sconosciuto: un patto del 1991 che raggruppa i quattro paesi reduci dal
comunismo, Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia. Questo accordo riunisce
paesi con un’economia di mercato affermata e alti tassi di crescita, anche se
in competizione fra loro, con odi talora profondi, soprattutto tra la
Slovacchia e l’Ungheria, o con divergenze politiche molto accese; per esempio,
la Polonia ha una posizione nettamente anti-russa, anti-Bruxelles e anti musulmani,
mentre l’Ungheria è molto legata alla Federazione Russa. Nonostante queste
forti divergenze, questi stati sono contraddistinti dalla cancellazione della
sinistra, che in Polonia non ha neanche un seggio, e che è quasi estinta anche
in Ungheria. Poi da un populismo molto radicato, da uno spiccato nazionalismo, cui
si aggiunge la paura che viene dalla mentalità contadina.
Come tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, scandali bancari, politici
azzoppati, governi che si susseguono indeboliscono la Francia e, ancor più,
l’Italia. Abbiamo un presidente della Commissione Europea molto fragile,
travolto da scandali, e i vari leader europei tutti azzoppati per mille ragioni.
Pensate alla Francia: François Hollande, secondo una statistica della settimana
scorsa, è ai minimi storici, a un gradimento del 14 per cento: su cento
persone, quasi novanta se potessero lo sfiducerebbero. In Germania, Angela
Merkel ha problemi seri; in Belgio non ne parliamo; la situazione dell’Italia
la conosciamo tutti. Anche Mariano Rajoy, primo ministro spagnolo, è un barone
dimezzato. La parte dell’Europa che da sempre ha trainato gli altri stati ha
leader molto deboli. E negli Stati Uniti sono prossime le elezioni. Gli unici
paesi che hanno classi politiche forti, a torto o a ragione, sono proprio
quelli dell’Europa centro-orientale. Però Bruxelles non ne tiene conto.