IL BEL PROGRAMMA
Intervista di Anna Spadafora
Il bel programma
(ed. Spirali), sembra curioso. Apparentemente, un programma dovrebbe funzionare, più che piacere.Raramente un addetto ai lavori parla di un buon programma; è l’utente che usa questa espressione. Un buon programma è quello che si comporta correttamente, che è “confortevole” da usare, che è completo, che è ricco, che ha sempre aspetti nascosti che possono soddisfare l’utente. Un bel programma è quello che presenta questo comportamento grazie al modo in cui è costruito: le strutture, l’organizzazione, il “dipanamento” delle istruzioni e chissà quali altri aspetti sono organizzati in modo da appagare il senso estetico di un informatico. L’utente non se ne accorge, ma un addetto ai lavori sa bene che, affinché un programma sia buono per l’utente, deve presentare quelle caratteristiche che glielo fanno definire bello.
Da quando ha cominciato a rivolgere il suo interesse di informatico verso l’arte?
Nel 1991, si costituì un’associazione (“TEAnO”, Telematica, Elettronica e Analisi nell’Opificio) il cui obiettivo era proprio quello dell’uso dell’informatica per studiare la modellazione di strutture artistiche, sperimentandone la generazione. Guarda caso, è stato appunto nell’ambito di questa associazione che sono stati portati avanti più lavori che non in altre sedi, proprio sul tema delle relazioni fra estetica, strutture, manufatti, opere in qualunque settore. Per esempio, perché no?, dell’informatica.
È sorta allora la nozione di ipertesto…
La svolta si ebbe nel 1994, quando il CERN di Ginevra mise a punto il primo browser, un programma – si chiamava Mosaic; adesso è scomparso – che consente la fruizione di Internet e degli ipertesti a chiunque non sia un informatico. Da questo momento in poi l’ipertesto è una struttura il cui nome compare sulla bocca di tutti, ed è una tecnica che viene fruita molto diffusamente e ampiamente. Non a caso, l’ipertesto è un prodotto in cui la struttura si “scopre”, si evidenzia; un ipertesto è un prodotto letterario in senso lato, che non necessita più di una struttura interna implicita, magari non del tutto consapevole, ma ha bisogno di esprimere una struttura esplicita e consapevole, che fa parte del progetto. Quindi, inevitabilmente, se ci sono elementi “estetici” legati ad aspetti strutturali, questi emergono, vengono portati allo scoperto e all’evidenza.
Da qui l’interesse per aspetti di relazioni, per l’analisi dei meccanismi di comunicazione, che non viene più costruita sulla trasmissione dei messaggi ma piuttosto sulle relazioni che tra i messaggi vengono costruite.
A proposito di elementi estetici, nel suo libro parla spesso di sinestesia…
Normalmente, con la parola sinestesia indichiamo la possibilità di una fruizione di qualcosa usando più sensi contemporaneamente. Ma lavorando con l’informatica, troviamo che, allo stesso modo, all’interno di un testo noi percepiamo allitterazioni, struttura grafica anche soltanto dell’impaginazione, anagrammi, rime, ritmi, “gabbie” (come la struttura di un sonetto), e queste cose le percepiamo anche soltanto leggendo, non necessariamente ascoltando. Questo vuol dire che, anche soltanto all’interno di un testo, siamo in grado di percepire una significativa quantità di estesie; quindi disponiamo di numerosi sensi differenti, che evidentemente hanno a che fare con la nostra capacità percettiva. I nostri sensi non sono cinque e nemmeno cento; non sappiamo quanti siano, ma con tutta probabilità saranno migliaia.
Qual è il percorso di questo libro?
Partendo da aspetti di pura comunicazione, ho esaminato gli elementi percettivi da un punto di vista più tecnico, più fisico; poi ho cercato di analizzare, all’interno di questo tipo di comunicazione, quali siano le cose realmente comunicate (riproponendo gli aspetti di relazione e di sinestesia). Poi il salto: il sospetto, l’impressione, la convinzione che, dietro questo tipo di comunicazione e di sinestesie, ci siano forti agganci con quello che chiamiamo conoscenza, con il sapere, con la scienza che porta a conoscenza; non parlo necessariamente di consapevolezza del vero, del reale, ma della costruzione di modelli, pur elementari, che ci forniscano un minimo di capacità predittiva; poi, la necessità di formalizzazione: la comunicazione e la conoscenza devono passare attraverso una possibilità di verifica; le verifiche legate alla sola parola sono spesso limitanti, perché la parola può essere ambigua; perciò la formalizzazione, non necessariamente “esoterica” come la matematica richiesta dalla fisica moderna, è un elemento fondamentale del nostro discorso. Poi sono tornato agli ipertesti, come struttura fortemente rappresentativa dei concetti espressi di sinestesia e di percezione che avviene attraverso relazioni; infine, ho proposto una carrellata di considerazioni in diversi settori espressivi, dalla pittura, alla musica, all’arte.