PER UNA POLITICA DELLA PROPRIETÀ INDUSTRIALE
Nel suo intervento al convegno internazionale La proprietà intellettuale. Marchi, brevetti e design nell’era della globalizzazione (Borsa Merci di Modena, 18 maggio 2007), Francesco Terrano ha affrontato il tema del made in Italy e del riferimento all’Italia nei marchi e nelle indicazioni dei prodotti fabbricati all’estero. Gli abbiamo chiesto di dirci qualcosa a questo proposito.
L’imprenditore italiano che fabbrica all’estero i propri prodotti può impiegare un riferimento all’Italia, attraverso varie indicazioni o con il marchio stesso – pensiamo a un marchio costituito da un nome inequivocabilmente italiano –, ma deve tenere conto delle diverse normative esistenti che regolano questa materia, in particolare di quelle che possono avere risvolti penali.
Possono essere identificate alcune regole generali. Prima di tutto, il produttore non potrà usare mai l’espressione “made in Italy” su prodotti che non siano originari dell’Italia, ai sensi della normativa comunitaria sull’origine delle merci. Mi riferisco in particolare al Regolamento doganale comunitario ove viene stabilito quando si può considerare un paese come quello di produzione, nel momento in cui diverse fasi di lavorazione del prodotto sono avvenute in contesti territoriali differenti, per esempio una parte è avvenuta in Cina e una parte in Italia. Laddove, ai sensi di questa normativa, il prodotto non si può considerare fabbricato in Italia, allora, impiegare l’espressione “made in Italy”, oppure una simile che induca a ritenere che il prodotto abbia una origine geografica italiana, costituisce reato.
Differente è il caso in cui si voglia evocare l’italianità del prodotto su profili diversi dall’origine geografica. Si pensi, per esempio, all’impiego di scritte come “designed in Italy” o “italian style”. In questo caso conviene sempre specificare il vero “made in” del prodotto. È, inoltre, molto importante definire la natura del richiamo all’Italia, evitando espressioni generiche che possano risultare ingannevoli circa l’origine geografica del prodotto. Ovviamente, laddove si vanti un collegamento all’Italia, esso deve essere reale ed effettivo.
Sempre nello stesso convegno, Matteo Scaglietti ha invece affrontato la tutela dell’aspetto esteriore dei prodotti. Gli abbiamo chiesto in che modo il diritto contribuisce a salvaguardare la proprietà intellettuale in questo caso.
Gli aspetti esteriori del prodotto riguardano tutto ciò che viene percepito dal consumatore, cioè tutti quegli elementi che individuano il prodotto come proveniente da una compagine imprenditoriale specifica e che lo differenziano dagli altri che si trovano sul mercato.
Il marchio di forma è idoneo a tutelare la forma di un prodotto: per esempio, la bottiglietta della Coca Cola collega immediatamente la bibita all’azienda produttrice. Sempre più spesso le aziende di prodotti liquidi provvedono a registrare il marchio di forma del contenitore. Così facendo, possono esercitare un diritto di esclusiva e avere il monopolio su quella forma.
La Smart ha addirittura ottenuto l’esclusiva sulla forma a silos dell’edificio in vetro dove hanno sede le sue concessionarie: registrato come marchio di forma, è idoneo a contraddistinguere i sevizi di vendita. Così la forma di un edificio è divenuta marchio. È marchio d’impresa tutto ciò che può essere rappresentato graficamente: un pentagramma con le note che formano un suono, forme bidimensionali o tridimensionali, colori o combinazioni di colori.
Anche il luogo di posizionamento del marchio, purché originale, può essere registrato come distintivo di uno specifico prodotto.
Un simile diritto di esclusiva lo si acquisisce anche con una registrazione per design. Questo tipo di tutela si adatta molto alle creazioni delle aziende di design e di moda, che hanno l’esigenza di tutelare la forma particolare di qualsiasi oggetto: dai capi e accessori per l’abbigliamento, ai tessuti (è il caso ad esempio di Louis Vuitton), ai decori per le piastrelle, agli oggetti d’uso quotidiano come elettrodomestici, componenti di arredo o macchine utensili.
Quando è nato questo strumento?
È sempre esistito (negli ultimi anni peraltro è stato oggetto di importanti modifiche che ne hanno migliorato l’efficienza) ma non è stato finora impiegato abbastanza dalle imprese. Adesso che la concorrenza è aumentata lo si sta riscoprendo.
Quali conclusioni ha tratto lo Studio F&M dal convegno che si è appena tenuto?
Considerata la complessità dello scenario internazionale e i crescenti costi per acquisire e rendere effettiva la tutela della propria proprietà industriale è necessario che le imprese sviluppino una vera e propria politica di tutela dei propri marchi, brevetti e design.
La contraffazione, per esempio, è un fenomeno in continua evoluzione e sempre più di rado consiste nella semplice copia del marchio altrui in sé e per sé. Questo fenomeno si sta spostando, infatti, su profili più sottili, come la riproduzione dei colori tipici di un’impresa ovvero dei suoi jingle o slogan, pur in presenza di marchi differenti. Ciò determina un effetto perverso: il consumatore, pur venendo posto di fronte a marchi diversi, tende a ritenere i prodotti che li recano collegati, perché riscontra la ricorrenza di elementi grafici o sonori che gli sono familiari e che gli consentono di metterli comunque in relazione. In tal caso, non può propriamente parlarsi di rischio di confusione, ma più propriamente di rischio di associazione tra prodotti. Questo fenomeno, a ben guardare, è ancor più pericoloso perché opera a livello inconscio sul consumatore. Contro questa pratica sempre più diffusa non basta la semplice registrazione del marchio aziendale, ma è necessario ottenere almeno anche una tutela per design (ovvero di marchio di forma) dell’apparenza estetica dei propri prodotti.