LE ONDE DELLA NOSTRA VITA
"Nell’infinito e nell’eternità in cui le cose si fanno secondo l’occorrenza, non solo nulla può essere tolto all’Altro, nulla può essere aggiunto o tolto all’infinito e nulla della parola può essere confiscato, nemmeno la nostra tranquillità, nemmeno la nostra serenità, ma neppure può essere scalfita la nostra fierezza”.
“La non accettazione intellettuale del mondo e di ciò che si prospetta come naturalmente normale esige il nostro intervento. Non per rinsaldare o combattere questo mondo, né per aggirarlo o consacrarlo, ma per indicare, del viaggio, la direzione. E allora, noi non possiamo tacere”.
“Nessuno ha da cedere, in nessun modo, sul progetto di vita e sul programma di vita”.
“Le onde, occorre esplorarle, indagarle. Non si lasciano agevolmente contare o prevedere. Nessuna onda è uguale all’altra:
così, le onde della nostra vita”.
(Armando Verdiglione)
La nostra è una storia di nomi, intorno ai quali si sono intrecciate e dipanate, talvolta bruscamente interrotte, strade di vita. E di nomi è denso il nostro viaggio.
Da mio padre ho imparato l’italiano, a illuminare le case, a mischiare materiali, stoffe, stili e colori, a cucinare, a lucidare argenti e ottoni, e una certa sobrietà. La sua materia è il legno. Se fosse vissuto, gli avrei raccontato questa storia e le onde della nostra vita dopo di lui. Ho sempre rimpianto di averlo lasciato solo, per l’orrore di vederlo morire.
Di mia madre ho serbato la timidezza, la parlata triestina nei giorni felici, lo charme e il sorriso mediterraneo di quando appariva in fondo alle scale per accogliere gli ospiti, quell’amore offerto tenacemente a un uomo che non ha mai osato dirle sei bella. La sua materia è la pietra di acquamarina.
“Un’onda improvvisa si porta via la luna, /e l’acqua di marea arriva col suo carico di sale” (Yang-ti).
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Il viaggio in questione incomincia quel 17 dicembre 1974, e per quanto io mi sforzi di anticiparlo, tutti quelli avvenuti prima contribuiscono a fare di quel viaggio qualcosa di unico, di originario e di mai avvenuto. Per le circostanze che lo hanno determinato — la scomparsa improvvisa di una famiglia che trascinava con sé un’epoca e la sua saga —, per la lucidità, il distacco, la decisione che lo hanno accompagnato e reso senza ritorno. Senza cerchio. Irrimediabile. Non possiamo tornare sui nostri passi perché l’onda li ha cancellati. Costretti a proseguire mentre stiamo appena incominciando. Costretti a balbettare e a inghiottire salato. Nulla è più come prima e il confronto è con l’assoluto, senza possibilità di fuga, di accomodamenti, di rimandi. Nulla è passato. Nulla è presente. La rivoluzione è in atto: la vita diviene valore. Valore assoluto. Valore intellettuale, perché non naturale, non scontato.
Poco prima ci sentivamo in credito, di questo e quest’altro, e quante gioie negate, quante occasioni perdute, quante ingiustizie la vita ci ha inflitto. E lì, intenti nella nostra contabilità minima, nella nostra ipertrofica civetteria, nel nostro ingombrante minuscolo soggettivismo stavamo a recriminare e a chiederci se per caso non dovessimo inseguire la felicità, fare le cose che ci piacciono, scegliere la nostra strada, vivere la nostra vita, preparare il nostro avvenire. E, ora, d’un colpo, ci troviamo in mare aperto, a navigare soli, e abbiamo bisogno di tutto, e abbiamo bisogno di comunicare e di ciascuno di quelli che incontriamo, abbiamo bisogno di incontrare anche chi non ci piace, e crediamo nemico, eppure abbiamo bisogno anche di lui, proprio di lui, che non si fa trovare, che è indifferente, o che, ostile, ci si para dinanzi e non ci fa passare. E non possiamo prendercela con le onde né con il vento né con la tempesta e non abbiamo strade da scegliere, faccio questo o quest’altro, perché una è la strada nostra, e quella dobbiamo seguire, mandati, incalzati, sbattuti e picchiati e talvolta offesi e derisi, ma sempre quella è la strada per vivere e noi dobbiamo camminarla, di piede e di passo, se si potesse usare il transitivo, e non saltare nulla, non scartare nulla.
E non soltanto questo, ma persino dobbiamo restituire quanto abbiamo ricevuto, che mai è stato e che mai ha potuto esserci dato. Missione? È parola che si possa ancora dire senza passare per religiosi o settari?
Quale eredità senza più bisogno che sia la morte a dare significato alla vita? Quale eredità senza più nulla di sostanziale, quando la memoria incomincia a scrivere le sue pagine, dimenticando ciò che è stato, perché ciò che è stato in quanto tale non entra nella cruna dell’ago, non diviene memoria, e pesa, pesa sulle nostre giornate, c’impedisce il sogno, obbligandoci a un certo destino subdolamente già scritto, a certi gesti, che noi crediamo ci appartengano, ma che invece sono un abito vecchio che ci portiamo addosso? Vestiti che camminano, senza quella forza che diciamo “intellettuale” perché è quanto di più nobile e santo ci è dato. Intellettuale. Non temiamo questa parola, tanto insultata e derisa, tanto mal posta nella bocca di chi ne ha fatto una professione o una confessione di fede, un vezzo o una bandiera. Intellettuale chi fa del sapere la sua performance, dispensa giudizi e buoni consigli? Chi cura i propri studi e si esercita in questo o quel campo dello scibile? Intellettuale chi esercita? Intellettuale chi, indifferente all’impresa, all’industria, alla finanza, alla vendita, delega tutto allo specialista di turno, lui stesso specialista nel vedere il male e il negativo dovunque? Intellettuale chi ostenta purismo e combatte la corruzione? Intellettuale a ore, con le sue piccole idee, buone per qualsiasi occasione, purché sia televisiva? Intellettuale chi di sé e dell’altro crede tutto sapere, tutto conoscere, tutto vedere, e non intende nulla?
Intellettuale la pulsione che ci fa vivere, intellettuale la direzione che ci indica la strada del nostro viaggio, intellettuale la giornata che si fa di mille e una cosa, nessuna esclusa, nessuna esecrata, nessuna indegna, nessuna di second’ordine. Intellettuale la cosa, la cosa sessuale. L’intellettualità non si esercita. Intellettuale perché manuale la giornata nella sua integrazione. Lo statuto intellettuale non è uno statuto sociale.
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1974, anno decisivo, dunque. Partenze, viaggi, ritorni, vacanze, peripezie, disordini amorosi, incubi e risvegli amarissimi, intrichi, agguati. Infine, l’approdo.
A Milano incontro Armando Verdiglione. Incomincio subito a lavorare e a studiare: letture, traduzioni, correzioni di bozze, imbustamenti, spedizioni, leggo moltissimo, organizzo congressi, incontro artisti e scrittori. Di notte, andavamo a affiggere manifesti sui muri della città e nelle metropolitane e poi a mangiare il pane appena sfornato.
Di quegli anni di formazione sul campo ricordo lo sforzo intellettuale e fisico, la straordinaria capacità d’imparare, in me che ero stata un’allieva modesta, all’occasione brillante, ma distratta, dispersa, così lontana dall’astrazione, poco incline alla filosofia. Quella scuola nuovissima e rivoluzionaria faceva appello a corde nascoste e del tutto inutilizzate fino allora, stuzzicava una curiosità sessuale per le parole, la lingua, la sintassi, i giri di frase, richiamava virtù pragmatiche, ingegnosità, spirito organizzativo, direzione. E accanto, una straordinaria elaborazione logica, teorica, clinica, dava gli strumenti per capire e per intendere, faceva dipanare storie avvitate, consentiva di giungere all’essenziale di quella traccia, di quelle famiglie, senza portarne il peso, la morte, la fatalità. Senza ripeterne i tic, le superstizioni, i formalismi vuoti, le genealogie mortali, le algebre e le geometrie. Senza idealizzarla o esecrarla. Fino a coglierne l’estremo messaggio di vita, di bellezza, d’intelligenza. Il mito della famiglia non viene dalla sua spiegazione, dalla sua giustificazione o dalla sua condanna. Arriva in punta di riso, per un estremo malinteso. Quando non puoi più dire se sia buona o cattiva, che già l’ossimoro ti sta alle spalle e lascia aperta la questione di vita e di morte. Nessun puntiglio. Nessuna severità di giudizio. Nessuna vergogna. Nessun compromesso sociale. E la vita che ti è data, sacra, unica, da non sprecare. L’alternativa alla vita non c’è. Vivere è un compito.
Imparo in quegli anni fortissimi il confronto con la solitudine. E la direzione, il progetto, il programma si stabiliscono soltanto quando la paura della solitudine sparisce. Tutto questo ho dovuto raccontare e scrivere per filo e per segno, senza dimenticare nulla, in un libro.
Il nostro viaggio ha qualcosa di unico, si chiama la proprietà intellettuale. Nessuno può togliercela. Questa proprietà si rivolge alla cifra, alla qualità, al capitale intellettuale, al valore assoluto della vita. Della vita originaria, della vita senza spreco e senza peccato.
Mi ha detto un giorno Verdiglione: “Nessuno di noi sa perché si trova su questo pianeta”.
Nel 1980, ho aperto il mio studio in via san Marco. Venivano da me persone che avevano smarrito la strada. Le accoglievo, anche se non potevano pagare. A volte, capitava un miracolo. Erano casi di vita estremi, che mettevano alla prova. Non potevo permettermi di sbagliare. Ero molto esigente. Attenta. Nessun rispetto sociale. Affrontavo questioni scabrose, cercavo di porre le condizioni perché ciascuno riprendesse il suo viaggio, il suo indispensabile itinerario, senza voler correggere, o dire cosa fosse bene o male. Ponevo la stessa umiltà, la stessa obbedienza nell’ascoltare quelle storie che mettevo nel lavoro redazionale. Senza fretta. Viaggio anzitutto linguistico e scritturale. Che fossero direttori di banca o professionisti, più grandi di me, o anche corteggiatori irriducibili, indicavo loro la via della scienza della parola così come io l’avevo imparata e intesa: cinque logiche per un viaggio, una clinica che segue all’ascolto, quando e come e dove qualcosa s’intende, senza malati e senza pazienti, strategia e arte della piegatura. L’inconscio come logica particolare a ciascuno. Lontanissima dalle pratiche erotiche della psicoterapia. Non avevo dinanzi nessun modello professionale. Non ho da elencare successi, né casi di guarigione da raccontare, non si è mai trattato di questo.
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L’incontro con Armando Verdiglione ha aperto il varco alla questione ebraica. Verdiglione l’ebreo, l’intellettuale, l’amato odiato. Il dissidente. Che fossi anch’io ebrea e nessuno me l’aveva detto? La questione era sempre rimasta sullo sfondo, a Trieste, dove i Witz degli ebrei e sugli ebrei fiorivano di bocca in bocca; a Milano, dove le famiglie dei Breda e dei Frua De Angeli, come molte altre famiglie industriali, pur di tradizione liberale, dalla guerra e dal fascismo avevano tratto vantaggi e onori. La questione ebraica era la questione intellettuale per eccellenza, e a me ha portato una libertà di spirito che né mio padre né il nonno erano riusciti a trasmettermi. E mi dava conto del disagio profondo che avevo sempre avvertito nei luoghi e nei tempi della società conformista, dove la parità sociale e di classe avrebbe dovuto togliermi da ogni impiccio, e dove invece mi sentivo estranea e goffa.
Quella stessa società conformista, con i suoi incaricati, con i suoi professionisti benpensanti e assolutamente classisti, avrebbe presentato un conto salatissimo, di lì a pochi anni, al nostro movimento. E a quel modo speciale della cultura e dell’arte che Verdiglione aveva incominciato a portare nel pianeta.
Incontrando Verdiglione, che pure in Calabria non era mai più tornato dal 1956, quando, a undici anni se n’era partito, a piedi, per andare a studiare, incontro al suo destino, mi ero ricordata di una frase, sussurrata a denti stretti: “Non siamo mica meridionali”. Eppure, di meridionali in famiglia ne erano entrati, con quel matrimonio di Ernesto con la bella triestina. Così, infatti, venivano considerati con una punta di sufficienza i parenti fiumani che l’italiano lo parlavano male, erano poeti, affettuosi e irriverenti, grandi commercianti e navigatori, sempre pronti a mettere in ridere anche la morte, con un senso fortissimo della famiglia, e a tavola disegnavano ponti e dighe nel risotto bollente e schiacciavano i piselli con la forchetta. Meridionale era tutto ciò che il calvinismo milanese respingeva perché troppo sessuale, troppo festoso, dai colori agli abbracci ai brindisi ai natali. Mangiatori di pane, patate e paprika, erano.
Molti anni dopo, sono andata in Calabria, la bella terra, e ci ho trovato la paprika, ovvero il peperoncino, e tavole imbandite a festa dove nessuno ti dice di fare come se avessi appena mangiato.
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Ho incontrato un uomo che sa mettere in difficoltà. Esigentissimo. Preparatissimo. Un inventore. Della stirpe dei fondatori. Maestro di ragionamento e di vita. Di politica e di poesia. Scienza della vita, la sua. Nato in un villaggio, dove il sesso e la morte non sono tabù e i bambini sono grandi prima ancora di crescere, lavorano e sanno dirigere, le cose sono semplici ed estreme, lontanissime dalle complicazioni della gente nata in città. In una donna, fa appello alla forza, mai alla debolezza. All’intelligenza, mai al vittimismo. Punta alla bella differenza. Non ama la civetteria. Gli dicevo: parliamoci da uomo a uomo. Perché odiavo, delle donne, quel modo lezioso e un po’ vittimistico di farsi belle con un uomo, giocando sulla castrazione. Facendo mostra della mancanza. Donne falliche, la rovina per un uomo.
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Con lui abbiamo organizzato i più splendidi congressi. Partivamo per viaggi oltreoceano in quattro o cinque, una tabella di marcia che non lasciava spazio alla stanchezza, sull’aereo si lavorava agli elenchi, dividendoci i compiti, assegnandoci appuntamenti, telefonate, incontri, interviste, questioni amministrative, di organizzazione. Arrivati a Caracas, a New York, a Londra, a Barcellona o a Tokyo, ci sparpagliavamo per la metropoli e aveva inizio quel dispositivo straordinario che avrebbe portato al congresso. Dovevamo affrontare lingue, culture, questioni nuove e impreviste, riti e cerimonie sociali inusitate, logiche, strutture e modi di pensare, di contare, di ragionare, di scrivere assolutamente differenti. E ascoltare, capire, convincere, entusiasmare, coinvolgere i nostri interlocutori in un calendario, sotto un titolo così fuori dal comune come Sesso e linguaggio, a New York, oppure La sessualità. Da dove viene l’oriente, dove va l’occidente, a Tokyo, dove non esisteva neppure la parola, sessualità, e si dovette usare il termine in inglese.
Ho di Armando Verdiglione una considerazione cosmica. Ritrovo in lui la grandezza di ciascun uomo nato sulla terra, la pulsione e la tenacia nelle avversità, nel lanciare la sfida, nel rischiare di vivere, ogni giorno, con forza e in qualità. Ho trovato in lui il re senza trono e senza regno, l’intellettuale libero, il dissidente. L’ho visto tenere appesi al filo di fumo del suo sigaro avana sale gremite, nel più assoluto silenzio. L’ho visto in abito bianco affrontare tranquillo e sornione manipoli di autonomi arrabbiati muniti di secchi d’acqua. L’ho visto timido nei rari salotti e audace, provocatore, senza paura, teatrale e cinematografico parlare difficile eppure essere inteso da giovani inquieti. Non l’ho mai visto cedere, mai rinunciare alla parola e a quella dignità che rende la vita santa, mai venire meno allo statuto intellettuale, mai alla questione della verità, mai imprigionato, mai vinto. Un principe.
Verdiglione ha le gambe salde e la camminata lunga del fondista. E non dimentica mai di alzare gli occhi al cielo per trovarci la luna nel suo splendido decolleté a illuminare un cammino, anche senza lampadine.
Siamo, con lui, in un formidabile dispositivo di forza. Dal 1974, e più ancora dal 1981.
Una volta ho scritto una lettera aperta alle donne italiane. Dell’incontro tra un uomo e una donna ho esplorato ogni piega, e capisco quando una donna ama, di un uomo, la sua assoluta particolarità, la sua originaria ingenuità. E non vuole cambiarlo, aggiustarlo, correggerlo, significarlo, tradurlo in un segno positivo o negativo. Sa rispettare il suo silenzio, quel suo starsene astratto, il suo disordine, oltre il principio dell’ordine, oltre ogni principio. E non vorrei, da una donna, sentire: io ho fatto questo per te. Nessuna parità. Nessuna reciprocità. Nessuna competizione. Il narcisismo assoluto non ha bisogno di rappresentarsi nell’egoismo. E l’amore non ricopre l’odio. E nessuna rinuncia sta alla base del matrimonio. Lo sposare — per usare un’espressione diplomatica — non è un obbligo sociale. Non serve a essere meno soli. Lascia intatta la solitudine. Rientra tra quei gesti arbitrari della vita, procede dall’alleanza, dal patto, dalla solidarietà; ha i suoi riti, e c’è un tempo per ciascuna cosa. Ha i suoi abiti eleganti, il suo cinema, il suo coup de theatre, le sue arie di valzer. Lo sposare è senza conoscersi, vive sulla punta di un malinteso. Esige l’altra lingua, la lingua diplomatica e ama il dialetto, la lingua sessuale. Lo sposare costringe a spogliarsi di ogni soggettività, inaugura una via pragmatica quando non c’è posto per la psicologia, quando le cose urgono e occorre fare ciò che occorre fare, e importa la riuscita, che non è mia o tua, e non c’è stanchezza che tenga, e ci vogliono la politica e la strategia, e anzitutto la forza e la decisione perché le cose si qualifichino, e sempre nuovi dispositivi per l’impresa. È questa la famiglia industriale, è questa la scommessa. In una estrema libertà linguistica e intellettuale. Le cose si dicono. Le cose si raccontano, quindi si fanno: e sta qui, nel fare, l’industria, la struttura materiale che poggia sull’infinito.