LA TOLLERANZA DEL FARE
Il dibattito intorno alla tolleranza del tempo e del fare che apriamo in questo numero della rivista indica che non c’è tolleranza senza l’accettazione della vita. L’accettazione della parola, della ricerca, dell’impresa, del business, del profitto è l’accettazione di quanto troviamo lun go l’itinerario: questione di accoglienza e di tolleranza. Lei ha incominciato il suo itinerario imprenditoriale assumendo, insieme a sua sorella, quanto aveva inaugurato suo padre, rilanciandone la scommessa. Oggi Curti Spa è un Gruppo che opera in settori differenti, dalla costruzione di macchine per il packaging farmaceutico a quella di macchine utensili speciali per diversi settori, alla subfornitura di parti meccaniche, alla progettazione meccanica e ricerca e sviluppo per diverse industrie, alla produzione di linee automatiche per lavorare i cavi elettrici. Poi, il vostro Gruppo produce componenti per l’industria aeronautica ed è noto per la costruzione di Zefhir, l’unico elicottero al mondo dotato di paracadute che ha anche ottenuto un brevetto internazionale. Quanta tolleranza occorre per condurre un’impresa?
Incominciamo subito con il chiederci quanta tolleranza occorre anche per costruire un’impresa, a partire dal progetto edilizio, per esempio. Oggi le normative di settore impongono, soprattutto alle costruzioni industria li, di essere anche “belle”. Ma cosa vuol dire “bello”? Il bello è un concetto relativo, che però è diventato un canone anche nella costruzione di edifici industriali, come avviene nel caso della ristrutturazione di immobili di rilevante valore storico, soggetti a vincoli e veti della Soprintendenza dei Beni Culturali. In questi casi, talvolta accade che i criteri siano soggettivi, perché, anche quando si tratta di attenersi a regole scritte, esse risentono della mentalità dell’amministratore addetto che le interpreta, e sono indiscutibili.
Analogamente avviene per il criterio del bello in ambito di edilizia industriale. Ma allora deleghiamo anche a questi uffici amministrativi le politiche di sviluppo industriale, dal momento che spesso viene bloccata la capacità decisionale dell’imprenditore che vuole fare e che vuole costruire. Non intendo dire che si debba costruire a tutti i costi, bensì che l’uomo possa ambire a stare un po’ meglio, dato che, nel caso dell’imprenditore, è tenuto a pagare gli stipendi a chi lavora in azienda. Mettere dei veti a chi è proteso a costruire è una forma di intolleranza.
Un’altra forma di intolleranza è costituita spesso dagli stipendi netti “da fame” che in Italia ricevono i di pendenti delle aziende. Per il luogo comune è colpa delle imprese, che però, fra contributi e imposte, versa no allo Stato mediamente il 60% di questi soldi. Le aziende giustamente devono pagare gli stipendi e fare in vestimenti, ma, quando vanno a costruire un edificio, spesso sono anche costrette a pagare il doppio dei costi a cui si aggiungono quelli dell’energia, maggiori di almeno quattro volte rispetto a quanto avviene in altri paesi europei. È necessario ridurre l’imposizione fiscale, se non è possibile farlo per gli altri costi, a cui si aggiunge l’elevato costo del lavoro. Come fanno le aziende a fare la pro pria programmazione in mancanza di regole chiare e durature? La politica industriale è stata ignorata da troppi decenni in Italia e tutte le volte le re gole cambiano. Occorre una politica di crescita per il paese, nelle sue varie componenti, non soltanto quella industriale, questo vale per la scuola, per la sanità, per l’energia e così via.
Perché sembra insistere questa intolleranza rispetto al fare?
Nel mondo del lavoro troppo spesso è stata alimentata la contrapposizione tra chi intraprende e chi, invece, fa il dipendente. Non è chiaro perché si debba stare per forza l’uno contro l’altro, quando poi si lavora insieme. È giusto che ci siano regole da rispettare per fare, ma quando l’imprenditore si attiene a quelle regole, che in Italia sono così stringenti, dovrebbe essere ringraziato, considerando gli oneri che si accolla, fra la parte di stipendi che va allo Stato e quella che versa in tasse sul reddito. Tutto questo va a beneficio della comunità, per cui il criterio dovrebbe essere che più guadagnano le imprese e meglio è per tutti.
La tolleranza spesso è intesa come al truismo. Noi constatiamo, invece, che la tolleranza sta nel fare, quando lasciamo che le cose avvengano…
Nel nostro settore industriale, quel lo della meccanica, come facciamo quando dobbiamo produrre un pezzo che abbia una determinata dimensione? Il progettista deve dare una tolleranza a quella dimensione, ma è impossibile ottenere quella esatta dimensione. Allora, la tolleranza sarà un po’ di più e un po’ di meno rispetto a quella “nominale”. Se dobbiamo fare la componente di un orologio, la tolleranza sarà molto piccola; se dobbiamo fare una piattaforma petrolifera, la tolleranza sarà molto più grande; così per misurare un immobile oc correrà utilizzare il metro, mentre altrove la misurazione sarà effettuata con il micrometro. Dipende cioè da quello che dobbiamo fare. Ma il fare è costituito anche dal modo di fare delle persone. Questo modo di fare può essere inteso come nel caso delle religioni: tu credi nel tuo dio e fai ciò che ti dice di fare la tua religione, io credo nel mio e cerco di fare ciò che mi dice la mia. In questi casi cosa diventa importante? La libertà. Io posso fare tutto quello che ritengo giusto fare, ma non posso assolutamente limitare in alcun modo la tua libertà. In Trentino Alto Adige, che è regione italiana, non mi possono obbligare a parlare tedesco, per esempio. Ma allora lasciamo che si possano parlare l’italiano e il tedesco. Questa particolare condizione impone di usare l’intelligenza, quella vera, che non deve prevaricare le libertà altrui.
Le regole sono necessarie, anche se possono essere più o meno stringenti, però non devono ledere la libertà altrui. Allora, servono regole che lascino fare. Durante il fascismo non è che ognuno al sabato poteva starsene a casa, ma doveva andare con la divisa a celebrare i sabati fascisti, a di mostrare che faceva parte dei molti e tutti della stessa idea. Allora, la paura di non avere il consenso imponeva le adunate oceaniche: tutti in fila, tutti omologati con la stessa divisa e con gli stessi simboli. Ma, se non appartenevi a quella categoria, dovevi essere messo da parte. Questa è la tolleranza zero.
L’idea di appartenenza è una forma di intolleranza…
Se l’appartenenza a un gruppo o a un partito m’impone di andare contro il mio pensiero, senza la possibilità di dissentire o di dissociarmi, allora non c’è crescita. Se le idee sono omologate e diventano indiscutibili accade come quando si bruciano i libri, perché si potrebbero leggere cose non conformi alla mentalità comune e potremmo dire: “Ma perché non cambiamo idea?”. A volte, se parliamo di religioni, le imposizioni o le regole sono state scritte da uomini. L’idea di appartenenza, allora, diventa la somma intolleranza.
La tolleranza interviene, però, nell’ambito delle regole che ci siamo dati. Per esempio, nelle imprese è previsto un orario d’ingresso, quindi non si può entrare in azienda quando ci pare. La regola impone la tolleranza, tant’è che si fanno le eccezioni alla re gola generale. Per esempio, soprattutto le donne, le mamme che lavorano in Curti, chiedono di avere orari particolari perché devono gestire i figli spesso senza l’aiuto dei nonni. Allora, la tolleranza diventa una questione di rispetto.
Quali sono i programmi della vostra azienda quest’anno?
Per noi è essenziale poter continuare a investire per poter continuare a lavorare, con giusti margini. Nello scorso anno abbiamo raggiunto il record di fatturato, con vari settori in crescita, per esempio quello dell’aeronautica civile, soprattutto nella componentistica per elicotteri, in grande espansione come l’aerospazio. Il settore del packaging farmaceutico o quello alimentare sono stabili. In quello automobilistico si registra un calo, anche perché, se nel mondo si costruiscono circa 80 milioni di auto, 30 milioni sono prodotte sol tanto in Cina. Poi, è vero che noi abbiamo dato “le chiavi di casa” alla Cina più di vent’anni fa. I primi responsabili sono stati gli americani, quando l’aiutarono a entrare nel WTO, World Trade Organization. L’Europa ha seguito questa tendenza, non avendo però alcuna valenza politica nel mondo. È notizia di qualche mese fa che il Gruppo Hertz ha dismesso il noleggio per il 30% del proprio parco di auto elettriche. Abbiamo distrutto l’industria automobilistica, la principale voce di bilancio in Europa.
Noi abbiamo in programma di fare investimenti nella formazione, principalmente quella tecnica. Però ci vogliono anche le soft skills. Lei hai mai visto in che condizioni sono famiglie e scuola? Qui si tratta di tolleranza, bisogna partire dalle basi, cioè capire quali sono le regole per vivere, perché oggi è più che necessario intervenire nella formazione globale dell’individuo.[1]