L’ORIGINE DELLE COSE NON SI PERCEPISCE MAI
L’atto arbitrario è l’atto libero dal condizionamento sociale ed economico. Il cinema ha regole che concernono la produzione e le esigenze del botteghino, oggi chiamate anche le esigenze del circuito televisivo, e che spesso condizionano pesantemente la qualità delle opere. In che modo lei è riuscito ad attenersi alla sua poetica, che, in un’altra nostra intervista, lei chiamava “il cinema ambizioso”?
È un equilibrio quasi impossibile, nel senso che, dopo cinquantaquattro anni di attività in cui ho difeso con coerenza una visione del cinema e di conseguenza un’idea elevata da parte dei destinatari dei nostri film, io mi trovo a pagare un conto molto salato, perché non soltanto io e la mia società non ci siamo certamente arricchiti, ma continuiamo ad avere problemi che negli anni sono aumentati in modo esponenziale. Fare un cinema di questa natura, che guarda all’essere umano e che cerca di avere un senso, ha un prezzo elevatissimo.
Quando lei parla di cinema ambizioso cosa intende?
Questo paese è profondamente rinunciatario, sul fronte della creatività si esprime poco. Siamo passati da decenni in cui potevamo vantare in tutti i settori la qualità di personaggi di cui andare orgogliosi nel mondo all’omologazione al ribasso, che dilaga in questi ultimi tempi. Io, poi, insegnando nelle scuole di recitazione, riscontro il fatto che molti abbiano un piano B, oltre al piano A. È sicuro che realizzeranno il piano B e mai il piano A.
In particolare in Italia, l’opportunità di produrre film di qualità è stata limitata dallo strapotere ideologico delle avanguardie che, soprattutto dal Novecento, hanno comportato un distacco del pubblico dal cinema, poi dividendolo in film di serie A, film per cosiddetti intellettuali, e in film definiti “cinepanettoni”, presunto appannaggio delle “masse ignoranti”. L’atto arbitrario è un atto che non si attiene all’ideologia corrente. In che modo lei è riuscito a mettere in questione questa dicotomia?
In realtà, noi abbiamo cercato di trovare una posizione intermedia, perché è evidente che l’immaginazione in ambito cinematografico ha le dimensioni del budget del film, cioè non può andare oltre. Io non ho la possibilità d’immaginare liberamente come potrei fare attraverso altre forme espressive: nel romanzo posso scrivere qualunque cosa e non esiste una censura finanziaria, amministrativa ed economica. Nel cinema invece il denaro, il budget del film, purtroppo sovrintende a tutto e costituisce la misura della creatività. Questa è subordinata al budget e di conseguenza interviene un altro ricatto che è quello del risultato economico, perché poi il regista sopravvive a se stesso, cioè riesce a dare continuità alla sua professione, a patto che i film che realizza non facciano perdere i finanziatori alla committenza. Quindi anche questo è un problema. Nel corso della nostra attività, noi abbiamo prodotto più film di insuccesso che film di successo. Tuttavia, a volte, ci è capitato di fare film che hanno un po’ compensato gli investimenti, ma non al punto da pareggiarli.
Quali sono i registi italiani che nel novecento hanno costituito un’eccezione rispetto al sistema ideologico?
I grandi registi sono sempre stati molto liberi. Uno fra tutti è Federico Fellini, ma lo stesso Pier Paolo Pasolini è un regista che sicuramente non ha tenuto conto delle mode. Potrei citarne anche tanti altri, per esempio Marco Ferreri o lo stesso Michelangelo Antonioni. Sono diversi i registi che non hanno obbedito pedissequamente allo “spirito del tempo”.
L’atto è arbitrario anche perché anomalo, cioè non si parifica e non si accomuna. Lei ha costituito un’anomalia per il cinema italiano. Anche le scelte delle tematiche dei suoi film sono state particolari e varie, dagli esordi con La casa dalle finestre che ridono, a Dancing Paradise, ai Cavalieri che fecero l’impresa, alla Seconda notte di nozze, soltanto per citarne alcuni. Nei suoi film sono sempre intervenuti aspetti vari della vita più che dimostrazioni ideologiche…
Io credo che ogni mio film assomigli in modo puntuale a quella che era la mia visione del mondo nell’anno in cui l’ho realizzato, tanto è vero che quando mi chiedono se rifarei quel film dico che non saprei proprio come fare, cioè ogni film assomiglia a quello che sono stato. Ciascuno di noi evolve e diventa qualcosa di diverso rispetto a quello che crede di essere, perché l’esperienza e la vita ti cambiano, facendoti vedere le cose da altre angolazioni. Io sono un’altra persona e tutt’altro individuo rispetto a quello che ero quarant’anni fa, quando realizzai La casa dalle finestre che ridono. È un film che non solo non vorrei rifare in questo momento, ma che non saprei neppure fare.
L’atto arbitrario non ha età, invece sembra che con l’avanzare degli anni ognuno debba accettare di uniformarsi o tendere a ripetersi. Questa rappresentazione dipende dall’idea ermetica ed esoterica che il tempo corrompa le cose. In che modo il procedere degli anni e l’esperienza diventano per lei un’occasione per ulteriori acquisizioni intellettuali e per un arricchimento e una valorizzazione della sua opera?
Sono convinto che l’idea secondo cui il tempo corrompe le cose sia applicabile alla parte fisica dell’essere umano. Con il passare degli anni, cioè, la parte fisica diventa sempre più ricalcitrante ed è evidente che stenti a riuscire a fare tutto quello che faceva un tempo. Ma la parte intellettuale e quella che riguarda te stesso e il tuo io seguono un percorso difforme, al contrario, un percorso che è diverso e che assomiglia a qualche cosa… Ecco perché a un certo punto la mia fede si fonda anche un po’ su questo, sul fatto che esista una forza di misteriosa sopravvivenza dell’essere in quanto individuo, perché io non avverto lo stesso degrado che percepisco sul mio fisico.
Recentemente, lei ha detto che: “Nella vita gli unici sogni che si realizzano sono quelli grandi, sono quelli che hanno a che fare con l’improbabile” e ha poi aggiunto che non ha ancora realizzato il film della sua vita. Come sarebbe “il film della sua vita”?
Sappia che tutte le cose alle quali non si sa dare una spiegazione nella propria vita sono anche quelle che contano, sia a livello affettivo sia professionale, cioè l’origine delle cose non si percepisce mai. Io so di non avere fatto il film della mia vita, ma so anche di non sapere com’è il film della mia vita, e il fatto di non saperlo fa sì che io ne vada alla ricerca e tutte le volte m’illuda che possa essere il prossimo, per poi rendermi conto che non lo è. Magari c’è qualche cosa che si avvicina in quel goffo tentativo che ho fatto, ma non riesce ad esserlo totalmente, non ne sono totalmente appagato. Nel momento in cui lo fossi il rapporto col cinema si esaurirebbe.
Nel corso della mia carriera di regista, ho ricevuto le proposte più disparate e a volte, sapendo di avere certi limiti, mi sono ritratto. Non ho quindi avuto quel tipo di frustrazione che hanno alcuni miei colleghi, che dicono di avere nel cassetto il film che non sono riusciti mai a fare. Il mio film su Dante Alighieri, per esempio, era un progetto che ho tenuto nel cassetto per vent’anni, però poi l’ho fatto, quindi non posso dire di non avere visto realizzato qualcosa che avevo pensato e mi ero illuso di potere fare. Con risultati diversi, oggi posso dire che tutto quello che volevo fare l’ho realizzato.
A proposito del suo film Dante, quale è la sua cifra e cosa lo caratterizza?
Questo film aveva e ha una prerogativa: quella di rendere Dante seducente. Cioè io penso che l’idea che abbiamo di Dante, che ci deriva probabilmente spesso anche dall’immagine che ne fanno i libri scolastici, produce in noi una sorta d’inadeguatezza nei confronti di questo personaggio troppo alto, troppo onnisciente, troppo eccelso in una dismisura poetica irraggiungibile e addirittura misterioso e incomprensibile. Io, attraverso questo film, l’ho molto avvicinato, l’ho reso umano, l’ho reso un ragazzo. Questa è un’operazione che nessuno ha mai fatto e mi auguro che riesca in qualche modo, anche a livello didattico, a incuriosire le tante persone che non lo hanno mai letto.