LA FAMIGLIA, IL CERVELLO, L’IMPRESA
“A ciascun compagno di viaggio”. Incomincia con la dedica dell’autore al suo lettore il viaggio imprenditoriale di Paolo Moscatti (La mia bussola. L’amicizia, la famiglia, l’impresa, Spirali). Lungo questo viaggio, Paolo incontra la moglie Loretta e il socio Alberto, fino a intraprendere la scommessa dell’impresa, oggi giunta alla seconda generazione, con i figli Marco e Luca. Il libro si presta a differenti letture e concerne ciascuno anche a partire dal proprio racconto intorno alla famiglia, che è la questione aperta, la traccia della vita.
Invece, la famiglia nel racconto del viaggio imprenditoriale, interviene spesso come luogo di origine, cioè come ricordo della famiglia. Come luogo di proibizioni e di prescrizioni, la famiglia sarebbe quella società organizzata in cui ognuno nasce e cresce e in cui ognuno si riconosce o rifiuta di riconoscersi. In altre parole, avviene l’invischiamento nella famiglia d’origine. Questa idea di famiglia è la rappresentazione della propria famiglia, che poggia su riferimenti naturalistici, organizzati come genealogia o archeologia e assunti secondo la propria idea di ghénos familiare.
Questa idea è gnostica e misterica, è l’idea di conoscenza secondo l’alternativa bene-male e costituisce una limitazione alla vita originaria. La vita senza origine, ovvero la parola libera e la sua industria, non è debitrice dei presunti limiti del papà o della mamma. Questione di mito, del mito della famiglia senza più pesi, remore e rimandi, quando la vita non è guidata dalla paura, che grava con la sua idea di conoscenza, e non è guidata dall’omertà che ne segue quando si cerca l’appartenenza al clan.
Da questa idea di conoscenza della famiglia proviene anche l’idea che qualcosa della vita possa essere un disvalore e allora occorre avere un’altra vita, un’altra famiglia, che siano ideali. La vita ideale, la famiglia ideale sono la vita negata, la famiglia negata, per paura della vita e della novità che interviene raccontando e facendo. Se il racconto intorno alla famiglia non procede dalla linea genealogica esclusiva, ma dalla traccia come apertura, della famiglia non c’è più conoscenza e allora incomincia il viaggio, interviene un altro racconto senza idea di predestinazione. Allora, ciascun elemento della vita non pesa e, lungo la ricerca e l’impresa, si valorizza.
La traccia non è la linea della predestinazione, sfugge alla pensabilità e alla conoscenza. Non è la traccia ideale, la buona traccia modellata sulla negativa della traccia. Se le cose procedono dall’apertura originaria, ciascun elemento della vita è accolto come donazione. La famiglia come traccia è proprio essenziale per intraprendere il viaggio della vita. Moscatti scrive che ciascuna sera leggeva ai figli le opere di Omero e di Dante. In questo modo, smettendo i panni della propria famiglia attraverso un altro racconto, non segnato dall’appartenenza al presunto ghénos, si è prodotto uno scarto rispetto al ricordo familiaristico e intimistico: le gesta di Achille e di Enea, nelle opere di Omero e di Dante, sono entrati nella famiglia come acquisizioni.
L’assenza di appartenenza a una genealogia già tracciata non consente la dicotomia, diffusissima, tra la famiglia e l’azienda. Il racconto, a tavola, dei vari aspetti dell’azienda – Moscatti scrive che i figli “crescevano a pane e impresa” – ha tratto entrambi i figli nei dispositivi dell’impresa in modo tale che poi ne hanno assunto la scommessa. La famiglia che non sia più segno dell’albero genealogico è quella da cui procede chi non ha l’idea di destino assegnato, con il sacrificio che ne segue.
La scienza della parola e il brainworking constatano come, raccontando e facendo, ciascuno nasce nel mito e rinasce nel linguaggio. Questo rinascimento non procede da facili schemi applicati alla vita e all’impresa, che promettono la guarigione da malattie fisio-psicologiche o il successo. Come testimoniano gli interventi che seguono, la sordità, che segue ai precetti del luogo comune, è dissipata dal gerundio della vita, vivendo e intraprendendo.
Ma allora, come procedere? Non con il pilota autonomatico. Ciascuno procede con la bussola della vita, con il dispositivo di direzione. La bussola è un dispositivo specialissimo: il cervello. Non è il cervello come organo, il cui studio oggi è oggetto d’investimenti stellari in vari paesi del pianeta, perché si attribuiscono a esso potenzialità nascoste, circondate da un’aura misterica, e spesso con l’approccio magico tipico delle tribù che arrivavano al punto da cannibalizzare il cervello del nemico. È lo stesso cannibalismo contro l’impresa e la novità che oggi viene, frequentemente, attuato nei tribunali italiani. Il cervello è il dispositivo del valore intellettuale, della qualità della vita, in definitiva è dispositivo della salute. La salute non è una faccenda per addetti a qualche disciplina, settore o ministero e non è qualcosa che si possa imparare o assumere per via di pastiglietta. Anche la pastiglia può entrare nel dispositivo della parola, ma non basta di per sé alla salute, perché la salute non è esclusa dalla malattia, dal problema di un organo, tanto meno del cervello.
I dispositivi di brainworking sono nati da questa constatazione: il cervello come dispositivo, il dispositivo intellettuale esige un’altra salute, la salute intellettuale, che non è soddisfatta da precetti, prescrizioni o proibizioni, perché per fare non basta applicare modelli. Senza questo dispositivo, senza il brainworking, ognuno può fare, ma questo fare risente ora della mitologia dell’assoggettato ora di quella dell’eroe, che è l’altra faccia della soggettività. Ma, vivendo, ciascuno non è esente dall’istanza intellettuale e anche la soggettività non tiene, come nota Daniel Paul Schreber in Memorie di un malato di nervi. Proprio allora può accadere qualcosa di non previsto: interviene la malattia o arriva la crisi e sembra più facile chiudere o vendere l’azienda. Vivendo, il viaggio, anche quello dell’impresa, mal si adatta agli schemi seguiti fino a quel momento e allora può interviene la paura come sentinella del rilancio oppure la paura come tabù, con il suo riferimento al principio di morte e di fine del tempo. La paura come tabù ci attanaglia, rendendoci soggetti in schiavitù, intenti a cercare la via facile per uscire dal tunnel.
Paolo Moscatti non ha accettato di assoggettarsi alla paura, non ha accettato la via facile: cedere sulla salute intellettuale. Racconta di essersi trovato sul punto di vendere, oltreché di rinunciare alla speranza che i figli potessero entrare in azienda. Ma, vivendo, la speranza non è confiscabile, come ho ascoltato nelle testimonianze dei dissidenti di vari paesi del pianeta incontrati grazie alla casa editrice Spirali. Dissidente non è l’oppositore, ma chi intende che il cervello non è situato in un luogo, non è nella mentalità cui biso gnerebbe adattarsi, perché interviene ciascuna volta come dispositivo della parola. Vivendo, la questione non si chiude mai, nemmeno con la sentenza del tribunale come sentenza di fine del fare, nemmeno con la morte come idea di fine della vita. Omero e Dante sono nella nostra traccia, come le imprese fondate da chi non ha accettato la facilità e il compromesso sociale, da chi non ha delegato il cervello.
Segue la via della cifra, della qualità, della salute, invece, l’impresa che non si sottrae al rischio di verità: chi non si accontenta e non si rifugia nel luogo comune esige l’impresa intellettuale, senza remore e reticenze, rischiando di trovare ciò che esula dalla propria immaginazione e dalle proprie credenze, poiché non procede dall’idea di ghénos, di conoscenza, ma dall’apertura originaria. L’impresa è intellettuale quando non resta nella sua comfort zone, quando non risparmia a sé il rischio di riuscita e non consente che la verità si converta nella conoscenza, ovvero che il cervello come dispositivo di direzione si riduca a knowledge management.
Secondo questo cervello, famiglia e impresa non sono alternativi e Moscatti si accorge di qualcosa, poco prima di apporre la firma per la vendita – che poi non si attuerà –, quando si chiede se l’ipotesi di ven dere l’azienda fosse dovuta a una fantasmatica, a una “vendetta nei confronti dell’azienda stessa che aveva occupato ogni spazio della mia vita”. E quanti sono, invece, quelli che a vario titolo prescrivono di non parlare di azienda in casa, di lasciarla fuori dalla porta.
La dicotomia fra impresa e famiglia conferma quella fra pubblico e privato, sottende il tabù della famiglia come privato che diventa tabù dell’impresa come pubblico: di qualcosa è vietato parlare e di qualcosa è permesso parlare. Ancora una volta la morale sociale investe la famiglia e l’impresa di proibizioni e di prescrizioni. Se il privato è inteso come la base del pubblico, allora è assunto come il nascosto che deve venire alla luce, come ciò che c’è “dietro” o “sotto”, e la famiglia diventa luogo infernale, nella ricerca della propria purezza e della propria armonia, attraversata dai vizi privati speculari alle pubbliche virtù. Invece, il mito della famiglia accoglie gli elementi della vita come elementi in direzione del valore, non si confina nel privato come canone della pena privata e si spalanca al pubblico come infinito delle cose che si fanno, senza la paura della fine del tempo.
I tabù rispetto alla famiglia comportano anche i tabù rispetto all’impresa. Ecco perché la famiglia può essere intesa come inciampo rispetto all’azienda e viceversa, come quando l’impresa diventa alternativa alla famiglia, con il pubblico opposto al privato: è il tabù di ciò che resta intoccabile mentre tutto il resto è accessibile. In entrambi i casi è negata l’integrazione rinascimentale fra famiglia e impresa, è tolta la lealtà della parola. Perché, procedendo dalla famiglia, l’impresa divenga caso di qualità, anziché caso patologico, è essenziale che la famiglia sia la base del pubblico. Così il privato, sfatando la statistica, giunge a divenire caso di riuscita, caso di valore.