IL CASO DI VALORE NON RIENTRA NELL’ORDINE DEL MONDO
La medicalizzazione della società passa anche attraverso
quella formazione manageriale che, con l’aiuto dell’approccio neuroscientifico,
elude il caso di qualità, la differenza e la varietà, e propone sempre più
ricette generiche, camuffate da “personalizzazione”, finalizzate a intendere “la
diversità nel modo di funzionare individuale”. In questo
approccio, gli umani sono automobili: a seconda di quella che devi guidare,
serve più o meno carburante, olio, acqua, pressione sui freni o
sull’acceleratore; poi, se è una Ferrari, la tieni in garage, se è una
Cinquecento, puoi anche lasciarla all’aperto: il trattamento dipende dalla
diversità dell’oggetto che devi manipolare. Niente di più lontano
dall’intelligenza, quando dall’atto di parola è tolto il racconto a vantaggio della
finalità salvifica, proiettata al miglioramento, al cambiamento e alla soluzione.
L’approccio neuroscientifico – come la maggior parte dei
metodi di comunicazione sempre più diffusi nelle aziende – vorrebbe ridurre la
parola e lo scambio alla manipolazione meccanicistica degli umani: è una forma di
trattamento, che elude la differenza e la varietà, proprio quando sembra esaltarne
le virtù attraverso l’attenzione alla diversità. Ma la diversità non è la
differenza, è la base del razzismo, perché intende la differenza come ciò che
costituirebbe l’essere di ognuno rispetto a quello di ogni altro. Per
questa via, la diversità è un concetto che comporta la discriminazione del
bianco dal nero, dell’ebreo dall’ariano, dell’uomo dalla donna.
Ogni trattamento mira a neutralizzare la differenza e
la varietà della vita, per paura della loro imprevedibilità e ingovernabilità.
Invece, la differenza e la varietà sono fonti di ricchezza inaudita e
inesauribile nella poesia, nell’impresa e nella politica, ovvero nelle tre
proprietà dell’industria. Togliete la differenza e la varietà e avrete la
necropoli, al posto della città planetaria; avrete la politica delle piccole differenze,
il provincialismo, al posto della politica del tempo che non finisce; avrete
l’unilingua, la lingua dei litiganti, al posto della lingua diplomatica e della
poesia; avrete la finanza come sostanza presunta limitata che penalizza il
fare, anziché come istanza di scrittura dell’impresa, in cui le cose che si
fanno giungono alla riuscita e approdano al valore.
Ogni trattamento pretende di dare agli umani gli
strumenti per divenire uguali o per rincorrere la differenza, quando essa è
intesa come segno di qualcosa che dovrebbe servire a divenire più uguali,
ovvero ad assimilarsi a chi è presunto portare il segno della differenza come status
sociale.
Ma la parola non si lascia trattare, non c’è nulla da
correggere né da rettificare parlando, facendo, scrivendo.
Niente e nessuno potrà mai prendere la cosa, l’esperienza,
e manipolarla, trattenerla o abbandonarla, allontanarla o avvicinarla. Nel
viaggio della vita, ciascuno instaura dispositivi di parola, ma la traduzione,
la trasmissione e la trasposizione restano intransitive, sono scrittura della
memoria, non puntano a tradurre, a trasmettere o a trasporre la cosa,
l’esperienza. Si scrivono la differenza e la varietà in cui ciascuno s’imbatte
vivendo, non ciò che ognuno vuole, sa, può o deve scrivere. Si scrive la vita,
con il suo viaggio narrativo, contro cui nulla può il totalitarismo, da sempre
impegnato nella caccia all’Altro, rappresentato come diverso, come capro
espiatorio rispetto al male, al peccato e all’incesto di cui è presunta
soffrire la comunità degli uguali.
Il caso di cifra, il caso di valore, invece, esige
l’invenzione e l’arte, il viaggio intellettuale e i suoi dispositivi, ciascun
giorno, in modo incessante, senza l’idea di miglioramento o di cambiamento, di
evoluzione o di progresso, che veicolano l’idea di fine del tempo. Come fa
anche il concetto di disruptive innovation, termine coniato nel 1995 dal
professore di Harvard Clayton Christensen per fotografare ciò che egli
constatava nelle imprese: “un’innovazione dirompente in grado di distruggere
aziende consolidate a favore di realtà emergenti”. In Italia questo concetto è
arrivato di recente ed è stato assunto dall’ideologia che imperversa sulle
piccole e medie imprese – sempre considerate realtà emergenti – come un nuovo
metodo per essere innovative e per avere successo, mentre in realtà è una
fotografia di ciò che accade.
Impossibile perdere l’equilibrio, perché ciascuno, come
ciascuna impresa, procede dall’equilibrio, dall’apertura originaria, che sta
alle spalle.
Tuttavia, chi ha dinanzi l’idea di fine del tempo, ovvero
l’idea di rottura o di cambiamento, ha la tentazione di abbattersi, di
abbandonarsi, quando scambia l’equilibrio con un “ordine del mondo” che gli
sembra irraggiungibile o irrimediabilmente perduto.
Ma anche l’idea di “fine del mondo” non sfugge alla sua
scrittura, all’arte e all’invenzione, che nutrono la memoria costantemente,
senza bisogno di essere situate nel mondo e nelle sue rappresentazioni.
In questo senso, nemmeno la pandemia (pan viene dal
greco παν, che vuol dire “tutto”) evita occasioni di elaborazione dell’idea di
mondo come “un tutto”: proprio mentre i media diffondono immagini degli
abitanti del pianeta omologati e uniformati dalla scure implacabile del
coronavirus, accadono cose differenti e varie, nuove, inedite, rivoluzionarie,
in ciascun angolo del pianeta. Sta a noi darne notizia.