L’APPORTO DEI COLLABORATORI ALLA RIUSCITA

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente di Gape Due S.P.A., Sassuolo (MO)

Nello stesso periodo in cui è nata la Gape, alla fine degli anni sessanta, è nata una miriade di piccole aziende produttrici di stampi per ceramica. Oggi se ne contano soltanto una ventina e la Gape Due è la più grande in termini sia di fatturato sia d’importanza. Quanto è stato importante per la vostra riuscita l’apporto dei collaboratori, oltre che dei clienti e dei fornitori? In cinquantun anni di attività ho sempre considerato essenziale alla riuscita il coinvolgimento dei collaboratori nel progetto e nel programma dell’impresa. Come ciascun imprenditore può constatare nella propria esperienza, un’azienda, per crescere e svilupparsi, ha bisogno di collaboratori preparati, affidabili e talentuosi. Per questo non mi stancherò mai di dire che l’imprenditore deve assicurare ai collaboratori accoglienza, formazione e opportunità di crescita professionale e personale.
Mi rendo conto che non si possono fare paragoni e che ciascuna realtà aziendale è a sé, quindi, non intendo insegnare niente a nessuno, tanto più perché ciò che vale per un’azienda di medie dimensioni come la Gape Due non può certo valere per un grande gruppo o una multinazionale. Ma forse si possono stabilire criteri di umanità nell’approccio che l’imprenditore o il manager o il responsabile di reparto adottano nei dispositivi con i collaboratori.
Riferendomi alla mia storia, posso dire che i miei collaboratori sono tanto affezionati e fedeli all’azienda, al punto che alcuni di essi fanno come se fosse propria. È vero che questo accade in quasi tutte le piccole e medie aziende del nostro territorio, ma non è accaduto in quelle aziende produttrici di stampi che sono rimaste di dimensioni artigianali né per quelle che hanno chiuso. Per questo, analizzerò l’approccio dell’artigiano verso i collaboratori per capire qual è uno dei principali motivi del loro mancato sviluppo.
Prima di mettermi in proprio, ho lavorato come dipendente e, già a sedici anni, nel 1960, la mia prima esperienza professionale mi bastò per capire qual era l’atteggiamento che non avrei mai dovuto avere con i miei collaboratori, se un giorno avessi aperto una mia attività. Mi ero appena diplomato alla mitica scuola ACAL, fondata dal prete imprenditore don Dorino Conte, in cui si erano formati quelli che sarebbero diventati i più importanti industriali del distretto di Sassuolo. Il mio titolare, un artigiano che produceva stampi per l’industria ceramica, era un dittatore in tutti i sensi, oltre che nelle idee politiche, nei modi e nell’abbigliamento: era sempre vestito di nero e urlava tutto il giorno contro tutto e contro tutti, considerava quasi uno schiavo chi lavorava per lui. Io ero un ragazzino e svolgevo i lavori più insignificanti; lui, tanto per incoraggiarmi, un giorno mi disse: “Se fossi al tuo posto, non accetterei mai di fare un lavoro del genere, prenderei tutto a martellate”.
Così, confermava che, nella sua officina, c’erano lavori di serie A e lavori di serie B, che lui non avrebbe mai fatto. “Ma, allora, pensai, se non ci crede lui al valore di quello per cui mi paga, perché devo crederci io?”. Chiaramente, non resistetti più di un anno.
Eravamo in pieno boom economico e le aziende ceramiche avevano bisogno estremo di operai specializzati. Di lì a poco, grazie alle mie competenze di fresatore, andai a lavorare alla Marazzi, che aveva appena avviato uno stabilimento a Fiorano e stava proprio cercando operai per l’officina, perché allora ciascuna ceramica aveva l’officina interna per riparare gli stampi.
Lì, era tutta un’altra musica: prima di tutto c’era un’organizzazione di tipo industriale, con un capofficina molto preparato e professionale, che insegnava con grande entusiasmo; devo a lui molte delle cose che ho imparato nei cinque anni di permanenza lì. Mi trovavo molto bene e avevo un futuro assicurato. Però, ero insofferente, soprattutto per gli orari: lavoravamo dieci ore tutti i giorni, escluso il sabato, che uscivamo un’ora prima. Da un po’ di tempo ormai, con il mio amico, che poi sarebbe divenuto anche il mio socio, ci chiedevamo che cosa fare per metterci in proprio, così almeno avremmo avuto più tempo libero, come era giusto a 22 anni. Quando ci licenziammo per aprire un’officina per la produzione di stampi fu l’errore più grave della nostra vita, perché dopo, invece di lavorare fino a sabato sera, lavoravamo fino alla domenica a mezzogiorno, anzi, facevamo anche i turni di notte, per non parlare dei rischi che avevamo dovuto assumere, essendo partiti senza capitali, con l’aiuto di amici, fornitori e banche, come avveniva allora.
Si avvalse degli insegnamenti del capofficina della Marazzi anche per altri aspetti? Da lui ho imparato non solo il mestiere, ma anche l’approccio verso i collaboratori, mai arrogante o prepotente, ma sempre umile e pronto a ragionare sui perché, per analizzare eventuali errori, anziché rimproverare chi ne era responsabile. Seguendo il suo esempio, in cinquantun anni, credo di non essere mai andato in escandescenza, e qualche volta avrei avuto più di un motivo per farlo. Ma forse questo fa parte del mio stile, ancora prima che incominciassi a lavorare, perché non ho mai alzato la voce neanche in altri ambiti della vita, nella famiglia come nella compagnia di amici. Ho sempre pensato che offendere qualcuno, anziché farlo ragionare sul proprio errore, sia molto più facile per chi riceve l’offesa, perché poi si sente in diritto di prendere le distanze e di non mettersi in discussione, cosa che richiede uno sforzo d’intelligenza. Per di più, rimproverare qualcuno offendendolo non aiuta a ottenere il risultato sperato, perché sposta sul piano personale un errore di procedura che deve essere corretto nel fare: facendo, nel pragma, non si tratta mai di un errore di logica, bensì di un errore di calcolo. Allora, proprio come il capofficina della Marazzi, se un collaboratore non riusciva a svolgere una lavorazione secondo le procedure, ragionando con lui, insieme, cercavamo di capire dov’era l’inghippo, quale passaggio era stato saltato o non era abbastanza chiaro.
Alla base, c’è sempre stata la massima stima verso i collaboratori e il riconoscimento delle loro doti, soprattutto quando erano più bravi di me, perché il vero problema delle piccole aziende artigiane è che il titolare non stima mai nessuno più di se stesso, pensa di sapere tutto lui e vorrebbe imporre a tutti il proprio modo di fare. Ma non esiste un unico modo per fare le cose, a ciascuno occorre lasciare il proprio modo, l’importante è che raggiunga il risultato. Non si possono togliere l’arte e l’invenzione dall’impresa, altrimenti si tolgono il piacere, la soddisfazione e il sorriso.
Quando ho avviato l’attività, si diceva che il padrone, per farsi seguire dai dipendenti, doveva alternare il bastone alla carota. Ebbene, non mi sono mai sentito padrone nella mia azienda, sono sempre il primo a salutare quando incrocio i miei collaboratori e ho sempre pensato che mi seguono non perché li fustigo o li gratifico, ma perché trovano in me un uomo che ha sempre puntato alla qualità. Tant’è che, quando qualcuno brontola perché c’è qualcosa che non va – come in tutte le migliori famiglie –, dico che, se non hanno piacere di trovare una via d’uscita al problema di cui si lamentano, possono andare a lavorare da qualche altra parte, magari dall’artigiano dittatore. Chiaramente, se molti di essi sono entrati da giovani in Gape e ci sono rimasti fino alla pensione, un motivo ci sarà: credo che stia soprattutto nel fatto che hanno trovato in me un interlocutore per la loro crescita, la loro soddisfazione e la valorizzazione dei loro talenti. Ma hanno trovato interlocutori validi anche nei loro colleghi, perché valorizzare i talenti ha voluto dire fidelizzarli, responsabilizzarli e tenerli uniti all’azienda e fra loro. Il direttore di produzione, per esempio, fa come se fosse socio dell’azienda: è il primo ad arrivare al mattino e l’ultimo ad andare a casa la sera, prende a cuore tutte le varie problematiche che intervengono e dà il suo contributo a ciascuno, non pensa mai che qualcosa non lo riguardi. Ma sono tante le persone che si sentono coinvolte nel progetto e nel programma della Gape Due, non solo perché hanno buoni stipendi, ma per un insieme di fattori, non ultimo anche perché si sentono onorate di lavorare nell’azienda più grande del settore.
Lei interviene spesso alle lezioni pratiche organizzate da Romano Sighinolfi al Dipartimento di Ingegneria Enzo Ferrari di Modena, per dare testimonianza della sua storia d’imprenditore agli studenti.
Quali sono le loro domande più frequenti? Mi pongono le domande più svariate, ma spesso mi chiedono se il mio approccio dipenda dal mio carattere o se sia frutto degli insegnamenti che ho ricevuto. I giovani, com’è noto, si sforzano di apparire il più possibile originali e difficilmente ammettono l’influenza degli adulti. Però, io li smentisco sempre, raccontando l’esperienza della scuola di don Dorino: “Quelli che adesso vi sembrano gli imprenditori che, come si dice, ‘si sono fatti da sé’ erano dei semplici ragazzi senza né arte né parte che passavano le giornate a giocare nelle strade di Sassuolo. Don Dorino ha inventato l’Acal, la scuola professionale dove ciascuno di loro ha imparato un mestiere, grazie anche alla Marazzi che ha messo a disposizione un capannone.
Non solo, don Dorino è stato per me e per ciascun allievo un maestro di vita, non a caso lo chiamavano il prete imprenditore, con tutti i rischi che un’impresa comporta, compresi i debiti che era costretto a fare per pagare le attrezzature e i migliori docenti sul mercato. Don Dorino ci ha insegnato l’umiltà e la dedizione al lavoro, ci ha insegnato che nella vita, per riuscire, occorre fare cose utili, quindi obbedire, più che comandare. Perché obbedire non vuol dire sottomettersi, ma ascoltare, ascoltare dove c’è qualità”.
E poi una cosa che ripeto spesso agli studenti è che non possiamo cancellare la nostra memoria: noi veniamo dal rinascimento e dalle sue botteghe, dove il maestro e l’allievo non sono il superiore e l’inferiore, ma due persone che hanno entrambi la mira di fare cose con arte e invenzione al massimo delle proprie capacità. Per questo, per il nostro sviluppo, dobbiamo valorizzare il nostro patrimonio industriale, scientifico, culturale e artistico, e per questo l’Europa non può rinunciare ai valori che sono alla base della sua memoria.