COME RILANCIARE LE INFRASTRUTTURE IN ITALIA

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presidente di Palmieri Spa, Gaggio Montano (BO)

L’Italia è il paese con il maggiore numero di piccole e medie imprese nel mondo. Essa ha potuto prosperare grazie al continuo investimento di tanti uomini e donne virtuosi che hanno trasformato il loro progetto in un’impresa di vita.
Imprenditori che, oltre ogni ragione contabile degli apparati amministrativi, accolgono nelle loro imprese altri uomini e donne ai quali, sempre di più, non offrono soltanto l’opportunità d’imparare un metodo di lavoro, ma anche un’occasione per acquisire un altro modo di vivere. Questa è anche la scommessa del vostro Gruppo, che, dalle montagne dell’Appennino bolognese, rilancia l’ingegno italiano nella costruzione di macchine e utensili dei settori del tunneling e drilling per infrastrutture stradali, ferroviarie, fognarie e minerarie, divenendone leader mondiale… Quando ho incominciato questo mestiere, nel 1971, l’Italia preparava il suo ingresso fra i sette paesi con la ricchezza nazionale più grande al mondo e ciascuna impresa formalizzava bilanci previsionali in crescita.
Oggi, invece, la nuova burocrazia fiscale, amministrativa e giuridica, in Italia, e l’ingresso nel mercato di paesi che praticano un nuovo imperialismo economico e finanziario, sembrano invece dissuadere gli imprenditori dal proseguire nel loro progetto. Inoltre, fino agli anni 2000 era possibile trovare collaboratori che avevano appreso già in parte una formazione tecnica, oppure potevano acquisirla tramite politiche di apprendistato che non gravavano le aziende di oneri burocratici. Questo non è più avvenuto, anche se adesso, forse, qualcosa sta cambiando, perché sono sempre di più gli imprenditori che sollecitano la scuola a formare i giovani indirizzandoli nelle aziende.
Così, accade che si trovino due categorie di collaboratori, quelli che incominciano subito a lavorare dopo il conseguimento del diploma, mentre altri proseguono negli studi universitari.
Il diplomato, impiega circa quattro o cinque anni per acquisire la formazione tecnica utile a divenire un operaio qualificato, talvolta anche specializzato. È quindi sempre un investimento dell’azienda che non è sostenuto dallo stato. Ma anche chi ha conseguito la laurea impiega poi quattro o cinque anni per entrare nella materia dell’impresa, perché quel periodo di formazione che offre l’azienda al diplomato, lo deve mettere in conto anche per il laureato.
Quindi, la trasformazione nella scuola di questi ultimi tre o quattro anni è stata sollecitata non dalla scuola verso le imprese, ma viceversa sono le imprese che hanno sollecitato la scuola e, in alcuni casi, hanno anche dovuto investire con fondi propri.
La contrapposizione fra il contributo manuale e quello intellettuale, rappresentata in due blocchi distinti fra impresa e scuola, fra il fare e lo studio dei libri, segue la logica di quella che Platone chiamava “la nobile menzogna”, secondo cui il figlio del vasaio non poteva che svolgere il lavoro del vasaio. In questa logica prosperano tanti professionisti, schierati nella difesa ideologico religiosa della loro confessione. Ma l’impresa esige dispositivi pragmatici che vanno in direzione della qualità pragmatica. Ecco perché gli imprenditori che costruiscono la città del secondo rinascimento danno testimonianza di un contributo di parola che è intellettuale e anche pragmatico, esige la lettura e anche il fare… La scuola è indicata come la formazione legata allo studio, ma non esplora gli scenari economici di quel che accade, anche quando inserisce nuovi strumenti tecnologici, come le lavagne interattive per lavorare in gruppo. Non è questo che metterà in pratica il giovane che entra nell’azienda, dopo il periodo scolastico.
Allora, entriamo invece nell’azienda.
Quali sono le esigenze dei giovani che lei incontra? Quest’anno, abbiamo assunto sette giovani con diploma tecnico, di cui qualcuno ha incominciato con un periodo di stage durante l’estate, e due sono stati assunti negli uffici tecnici.
I ragazzi che arrivano in azienda, per esempio, sono in grado di orientarsi nell’utilizzo dei programmi di disegno al computer, ma poi siamo noi a insegnar loro come si quota un disegno meccanico, perché sia utile alle macchine dell’azienda. Poi, devono imparare a scegliere alcuni materiali e allora noi facciamo loro alcuni corsi interni sui tipi di acciaio.
Qui imparano la materia con cui costruiranno i progetti meccanici e queste cose non le imparano a scuola.
Poi, proseguiamo insegnando come assemblare singoli pezzi e, intanto, loro incominciano a capire chi mette a frutto il proprio ingegno – il cosiddetto “sbuzzo” – per la progettazione vera e propria di un gruppo meccanico nuovo, per esempio.
Quali sono le sue valutazioni in merito alla cosiddetta Industry 4.0, in cui prevale la componente elettronica nell’automazione industriale? Come in ciascun aspetto della vita, e della vita di un’impresa, non bisogna abusarne, perché le cose più semplici sono sempre anche le più funzionali.
Io sono per le cose elementari, meccaniche, in cui ciascuno può ingegnarsi con le mani e può essere sempre più partecipe nella produzione. In Colombia, dove abbiamo impiegato alcuni nostri collaboratori nell’escavazione di una miniera, è accaduto che una macchina, da noi costruita e consegnata un anno fa, abbia avuto un problema, che però è stato subito risolto, perché è bastato un piccolo intervento meccanico, risultato anche meno oneroso in termini di tempo.
Bisogna stare, quindi, molto attenti nel valutare questa nuova tendenza.
L’elettronica rende la vita molto facile, ma basta un attimo perché si blocchi tutto, per cui occorre grande competenza, che però è sempre più difficile da trovare. Il settore del tunnelling è migliorato tantissimo rispetto a vent’anni fa, perché anche l’elettronica ha fatto grandi passi in avanti in affidabilità e robustezza.
Nel tunnelling si usano camere stagne in cui sono inseriti gli elementi elettronici ed elettromeccanici, che monitorano la temperatura e le polveri presenti nel sotterraneo, soggetto a temperature troppo calde o umide.
La tendenza è sempre più quella di costruire macchine con diametro di scavo sempre più ampio, con dispositivi interni all’utensile che controllano elettronicamente quello che avviene sulla testa di taglio della macchina, mentre procede nell’escavazione.
Man mano che avanziamo nel tunnel, i dispositivi all’interno dell’utensile trasmettono le informazioni rilevate agli uffici esterni del committente, che può essere una società ferroviaria o autostradale o altro.
Qual è la sua lettura di quanto accaduto nel crollo di parte del ponte Morandi di Genova? È una cosa molto difficile da dire, anche perché oggi vediamo che quello che è rimasto inalterato del ponte non ha problemi di tenuta.
Allora, bisogna porsi tante domande.
È possibile che soltanto uno o due tiranti posti all’interno delle strutture di sostegno abbiano ceduto in quel modo? Io non demolirei il ponte che è rimasto in piedi. Tornerei a utilizzare, invece, anche le stesse fondazioni di quel ponte, che non presentano segni di corrosione degli stralli.
Incomincerei a ricostruire in acciaio – perché è un materiale più elastico – la parte crollata e allargherei quel tratto. Se avessero predisposto sopra quel ponte una scatola di acciaio, per esempio, quel ponte non sarebbe crollato.
È interessante l’ipotesi avanzata da Agostino Marioni, l’ingegnere e presidente di una società veneta – poi fallita, perché lo stato paga sempre con puntualità –, secondo il quale il crollo sarebbe stato causato dalla caduta del rotolo in acciaio, del peso di 3,5 tonnellate, trasportato da un camion che viaggiava alla velocità di 60 chilometri orari. In quel punto, è come se il ponte avesse preso una cannonata. Anche lui sostiene di non demolire il ponte e, secondo me, non farnetica, anche se la notizia è stata poi smorzata.
L’Italia del sorriso è l’Italia dell’impresa che continua a investire, come indica il dibattito che apriamo in questo numero della rivista. Qual è il sorriso della sua impresa? Io sorrido perché faccio quello che mi interessa: il puro meccanico.
Domenica sera, quando sono tornato dall’EIMA, la fiera internazionale delle macchine per l’agricoltura e il giardinaggio, ho notato come fossero migliaia le persone che hanno dedicato la loro domenica a visitare la manifestazione. Erano per lo più imprenditori, che non avrebbero potuto andare in fiera durante la settimana e hanno sacrificato la domenica, la loro festa da dedicare alla famiglia, invitandola anzi a visitare gli stand. Bisognerebbe che i politici s’interrogassero su questo e prendessero spunto dagli uomini e dalle donne che vanno a investire il tempo cosiddetto libero in una fiera in cui si parla di costruire questo paese. In Germania, per esempio, il venerdì a mezzogiorno le fiere chiudono. In EIMA i grandi compratori sono stati gli asiatici, però al sabato e alla domenica se ne sono visti ben pochi, perché era pieno di italiani.
Questi uomini, che in alcuni casi hanno le aziende inerpicate in zone con scarsi collegamenti infrastrutturali, sono quelli che possono dare un esempio e un sostegno intellettuale al territorio? Chi fa imprenditoria in qualsiasi angolo d’Italia, che sia la montagna o la pianura, deve scontrarsi con le istituzioni pubbliche soltanto per fare piccoli passi avanti. Noi, per esempio, oggi abbiamo bisogno di avviare un progetto di costruzione per ampliare uno dei nostri stabilimenti. Per ottenere le licenze e i permessi del caso dovremmo aspettare almeno un anno. Cosa significa per un’impresa perdere un anno in scartoffie burocratiche? Vuol dire che quell’imprenditore perde il desiderio e l’ambizione di fare progetti che arricchiscano il territorio in cui opera. Ma non è tutto.
Oggi, anche per mettere a norma e in sicurezza un solaio, occorrono diversi mesi prima di ottenere l’autorizzazione amministrativa, con il rischio di ricevere la sanzione nel frattempo.
Le istituzioni pubbliche dovrebbero capire che è nell’interesse di questo paese mettere le imprese nelle condizioni di continuare a investire nel territorio in cui operano, anziché incoraggiarle ad attuare i propri progetti oltralpe.