LA BUROCRATURA E IL TEOREMA DEL SORRISO
“E veramente accade che sempre dove manca la ragione
suppliscono le grida”: così scrive Leonardo da Vinci nel Trattato della
pittura, dove chiama “lingua de’ litiganti” quella che elude “l’esperienza” e poggia
sulla “falsa e confusa scienza” perché “pasce di sogni i suoi investigatori”.
Dai social network al governo, dai giornali di regime ai
tribunali del popolo, questa assordante lingua dei litiganti, ipnotica e demagogica,
percorre oggi la provincia Italia: è la lingua comune, lingua del nulla, fatta
di appelli al popolo, di critiche al profitto industriale e finanziario, di
appoggio alle dittature culturali e politiche orientali. È lingua contro la
parola originaria, ma non contro il dialogo, su cui essa poggia: da Platone in
poi, il dialogo è funzionale al raggiungimento dell’unità ideale, anzi, al
ritorno dell’ideale unità originaria cui si riferisce ogni regime. Nella
sordità.
Terminate le ideologie politiche novecentesche, il
riferimento all’unità è un riferimento al nulla, che deve mantenere, idealmente,
l’idea di sistema e di sottomissione a esso, per erigere il nuovo regime, anche
attraverso la rete e il contratto di governo, ultimi avatar del contratto
sociale di Jean-Jacques Rousseau, che pretese di fondare la società sulla paura
della parola.
Deve convenire a questa unità ideale, che ingloba la
differenza e la varietà, ogni comunità ideale basata sulla condivisione – dalla
comunità dei fedeli alle social community, dalla Comunità europea alla Umma islamica
– perché il buon senso, il consenso e il senso comune – “dove manca la ragione”
– impediscano la comunità della parola, del fare, della scrittura. Questa comunità
pragmatica, intellettuale, industriale non ha bisogno del sistema e dell’unità,
si attiene alla lingua della sua esperienza e della sua memoria e si avvale
della macchina come invenzione e della tecnica come arte. La memoria è esperienza
che non si condivide.
Il regime, anche democratico, non può tollerare l’esperienza
libera: le oppone la burocrazia amministrativa, finanziaria, giudiziaria, la
nuova casta che controlla e ingabbia le associazioni e le imprese, “il ceto
medio” e “le partite IVA”, ma anche le istituzioni, il parlamento, il governo.
Gli effetti sono la paralisi legislativa, il blocco delle nuove opere, l’aumento
degli oneri amministrativi e fiscali per le imprese, il dominio della
magistratura, l’ipertrofia del sistema carcerario.
Come hanno dimostrato l’attacco giudiziario allo scienziato
e scrittore Armando Verdiglione e la distruzione della sua impresa, ma anche come
provano il fallimento di migliaia di aziende e il suicidio di centinaia di
imprenditori – a torto attribuiti alla crisi –, in Italia il fiscalismo e il
giustizialismo, ovvero la burocratura, la dittatura della burocrazia, mirano a
schiacciare la libertà di ricerca e d’impresa, criminalizzando ogni invenzione
organizzativa, economica, fiscale, per standardizzare, uniformare e depredare,
dunque negare, l’esperienza originaria e la specificità dell’industria di
ciascuno.
Quest’epoca trista e triste mira a un’Italia dell’indifferenza
e del conformismo.
Occorre che ciascuno sia minacciato di reato, quindi pena,
quindi di colpa: regnando la paura, nulla deve accadere, avvenire e divenire,
se non perché prescritto e obbligato, perché le riforme, i cambiamenti, le
metamorfosi confermino il cerchio, restino una tautologia, portino a un nuovo
immobilismo. È l’epoca del nullismo, in cui la vita civile viene sacrificata, resa
vita penitenziaria in ossequio all’utopia, alla volontà di pace. Ma di che pace
si tratta? Nell’Italia del dialogo, del litigio perpetuo, la volontà di pace
esige il sacrificio, dunque la coscienza della pena che si forma attraverso
l’istituto del terrore, basato sul ricatto, e l’istituto del panico, basato sul
riscatto, su cui prosperano professioni e confessioni. Con l’idea di pena, chi
non vive nel terrore? Chi non soffre di panico? Con la burocratura, il senso di
terrore e di panico deve essere percepito ovunque e da chiunque, ed è
distribuito sotto il canone dell’assistenza e della protezione. Così il panico
e il terrore condivisi, istituzionalizzati, costituzionalizzati diventano patologie
da cui salvare o da cui salvarsi, contravvengono alla volontà di pace individuale
e collettiva di cui la calma deve essere il segno, in assenza di sorriso.
L’idea penale è l’idea di salute mentale. In quanto
malattie, panico e terrore vengono sottoposti alla medicalizzazione
psichiatrica e psicofarmacologica, istituzionale o alternativa che sia, alla
“falsa e confusa scienza”. In questo modo divengono questioni di salute
mentale, ovvero pubblica, da condividere nella comunità ideale, anziché questioni
intellettuali, linguistiche, che richiedono un’elaborazione differente e varia,
incondivisibile.
Nulla più del terrore e del panico esige la comunicazione e
la comunità pragmatica, anziché il dialogo e la condivisione, che dell’istituto
del panico e dell’istituto del terrore sono il terreno di coltura.
Mentre la comunità della condivisione esclude il tempo a
vantaggio della circolarità e della quadratura delle cose, proprio il terrore e
il panico, che non tollerano circolarità e quadrature, sono, nel racconto, l’indizio
che il tempo non si abolisce (il terrore) e che il tempo non si ferma (il panico)
per sancire l’unità. Anziché il dialogo professionale o confessionale, il terrore
e il panico esigono il dispositivo di parola temporale e pragmatico, sono due
esigenze del sorriso che s’instaura con la lingua dell’intendimento, la lingua diplomatica,
non la lingua dei litiganti, e con l’impresa temporale, non l’economia circolare.
Benché in catene, Prometeo non assume la pena, invoca “dei
marini flutti l’infinito sorriso” (Eschilo, Prometeo incatenato). Il sorriso
non è indice di benessere, non può essere inteso come bonario o accattivante. “Non
c’è più la fine del tempo”: questo il teorema del sorriso, che indica
l’esigenza di scrittura delle cose che si fanno e l’esigenza d’intendimento e
di riuscita. L’Italia del sorriso è l’Italia della parola, non del dialogo, l’Italia
dell’ingegneria e dell’impresa, l’Italia che esige un approccio intellettuale e
industriale a quel che viene chiamato panico e a quel che viene chiamato
terrore, anziché prenderli come pretesti per salvare o per salvarsi, i due
comandi dell’ideologia della salute mentale, cioè sociale.
Con il terrore e il panico cessa la sordità e
s’instaura l’ascolto: questo il sorriso dell’Italia del secondo rinascimento.