IL BILANCIO INTELLETTUALE DELL’IMPRESA
Oggi dire “città moderna” evoca in modo estremamente
riduttivo la pervasività delle tecnologie. E un’antonomasia ci suggerisce che
il termine tecnologie sottenda l’elettronica, l’informatica e la rete.
Chi, come me, viene dall’origine di queste tecnologie – il
primo computer che ho usato occupava una stanza di duecento metri quadrati e
aveva una potenza di calcolo decine di migliaia di volte inferiore a qualunque
dei telefonini che abbiamo in tasca – ha potuto assistere alla loro vertiginosa
evoluzione, che non pochi osservano con una certa preoccupazione.
Tra questi ci sono io, che osservo pericolose relazioni tra tecnologie,
industria e consumo.
La produzione ha tratto grande impulso dalle tecnologie e dall’automazione.
La capacità produttiva dell’industria è aumentata a dismisura, con una forte
riduzione dei costi di produzione, e conseguentemente dei prezzi, invadendo il
mondo di prodotti in quantità tale da superare la reale necessità. Cosa può
fare un’industria quando satura il mercato? Andare oltre l’ideazione di nuovi
prodotti: può inventare il consumatore.
E così è stato, ad esempio, con gli smartphone: in Italia
circa 21 milioni di persone ne possiedono uno, 15 milioni ne hanno due, 7
milioni ne hanno tre e 5 milioni ne hanno quattro o più (fonte
Eurispes-Rapporto Italia).
Non si tratta esattamente di libere scelte: la macchina
della comunicazione di massa, della pubblicità e di internet operano in modo da
convincere all’acquisto di ciò che non ci serve. Anni fa, il grande designer e
teorico austriaco Victor Papanek diceva che la comunicazione sui nuovi prodotti
induce ad acquistare oggetti che non ci servono, con soldi che non abbiamo, per
far vedere che li abbiamo ad altri, a cui non interessa minimamente. E ancora, anni
fa Ivan Illich sosteneva che in realtà la nostra società si basa sulla frustrazione,
ed è proprio quella che ci induce, visto che non possiamo accedere a pari
diritti reali, a quella fetta di potere che vediamo in altri, surroghiamo
l’ottenimento del potere attraverso l’acquisto di prodotti, che ovviamente non
soddisfano le nostre esigenze primarie, e quindi aumentano la frustrazione, determinando
ulteriore spinta agli acquisti.
Internet ha un ruolo determinante nella costruzione del
meccanismo; prendiamo ad esempio Google, che tutti consideriamo strumento di
ricerca: ho chiesto a mia moglie di effettuare una ricerca su Google sulla
Corea del Nord, chiedendole di farla dal suo studio in un preciso momento, lo
stesso momento in cui io effettuavo la stessa ricerca dal mio studio. I due
computer da cui abbiamo operato la stessa ricerca hanno fornito risultati
diversi, in particolare sulle prime informazioni fornite, quelle maggiormente in
evidenza: io ho ricevuto informazioni che sbandieravano lo spettro della guerra
nucleare, mentre per lei era messa in evidenza la condizione di scarsi diritti
delle donne nordcoreane. Evidentemente lei ed io siamo oggetto di profilazione,
e la ricerca di informazioni è stata trasformata in suggerimenti di come e cosa
pensare. La rete è ormai un grande mercato, ma purtroppo la merce siamo noi! La
grande potenza di questi strumenti fa sì che il grosso, ricco e con
disponibilità di mezzi, ha la possibilità di aumentare la propria potenza e la
propria ricchezza: così assistiamo a una crescente sperequazione mondiale, in
cui il numero di ricchi diminuisce progressivamente, ma aumentando la ricchezza
complessiva posseduta, mentre il numero di poveri aumenta, diventando nel
contempo sempre più poveri. Recenti dati indicano come oggi l’1 per cento della
popolazione mondiale possieda più risorse di quante ne abbia complessivamente il
restante 99 per cento (Fonte Oxfam 2018).
Quindi, tornando al titolo di questo dibattito (La
libertà, la giustizia, la città moderna, Bologna, 20 febbraio 2018), quale
libertà? Quella di comperare ciò che ci viene imposto? E quale giustizia?
Quella di vedere aumentare sempre di più le diseguaglianze? Tutto ciò è frutto
di una “cultura del profitto” che trae probabilmente origine da una visione
mercantile: il mercante acquista merce che rivende, non progetta e non produce;
vive sulla differenza tra costo di acquisto e prezzo di vendita. Tale cultura,
tipicamente anglosassone (non a caso anche i vari standard di gestione contabile,
dalla stesura dei bilanci alla gestione della finanza, sono nelle mani di enti
originati dal mondo anglosassone) ha pervaso il mondo delle imprese.
Oggi l’impresa raramente intraprende: la strategia più
sicura sembrerebbe quella di affidarsi a un marketing che individui che cosa il
pubblico è disposto ad acquistare, a produrlo, a venderlo, il che è come dire
che si decide la direzione in cui andare guardando nello specchietto retrovisore.
Il tutto viene fatto seguendo precise regole dettate dai
vari libretti che garantiscono la “conformità” ai comportamenti previsti.
Un mondo fatto di conformità, di omologazione, di retorica
della certificazione, dove studio, sperimentazione, cultura sono banditi, in
nome dell’aumento del profitto e della riduzione del rischio.
Quale distanza dalla bottega rinascimentale, in cui
regnavano lo studio, la sperimentazione al di sopra delle regole, l’azione,
all’interno di un forte contesto culturale in continua crescita! Eppure è
pensabile un nuovo modello d’impresa, un’impresa culturale in cui il profitto non
sia un obiettivo, ma piuttosto un sottoprodotto collaterale.
Una tale impresa, capace di un impatto sull’intera comunità,
non potrebbe essere ben rappresentata da un bilancio societario come quello
dettato dagli attuali standard contabili, così limitato ad aspetti monetari,
osservati attraverso un’istantanea, che ne congela il divenire in un istante
privo di correlazione al reale progressivo sviluppo.
Proprio questo è il tema trattato nel libro Il bilancio
intellettuale dell’impresa, che ho avuto la fortuna di scrivere insieme ad
Armando Verdiglione.
Quello che serve è un modo diverso di vedere l’impresa, di
vederne la finalità e il ruolo ampliato a livello culturale, capace di avere
ricadute sulla società. E da una visione diversa dell’impresa non può che
emergere un modo diverso di raccontarla attraverso un bilancio. Un bilancio di
nuova impostazione, che fuoriesca largamente dagli schemi attualmente imposti,
e che permetta una narrazione più profonda e vitale.
U n’impresa non può essere fotografata nell’immagine dei due
piatti di una bilancia che si debbano pareggiare, statica visione di un organismo
che deve invece vivere e progredire insieme all’ambiente in cui vive.
Meglio vederla come un tubo, e questa è una delle
suggestioni del libro, in cui si assista alla dinamicità dei processi, e in
cui, come in tutti i tubi che non hanno perdite, quello che entra corrisponde a
quello che esce. E, ci si domanda, il profitto? Non dovrebbe uscire senza
essere entrato? No: quello che entra in un tubo è quello che esce,
eventualmente trasformato. Ma se non entrano anche cultura, intelligenza,
intelletto, voglia di costruire, di cambiare il mondo, di sperimentare, di
distribuire ricadute, come si può pensare che esca qualcosa di diverso da una manciata
di soldi che corrisponde al gretto valore del tempo impiegato a pensare solo a
quel profitto? Un’ultima connotazione: non si tratta di un testo utopicamente filosofico,
sto già lavorando con un’amministrazione locale per fare alcune sperimentazioni
reali, con la speranza di poter raccontare, magari tra un anno, del bilancio
intellettuale dell’“impresa” e di applicare il bilancio intellettuale a
un’amministrazione pubblica.