LEGGENDO ARMANDO VERDIGLIONE
Mentre
inizio a parlare avverto da parte vostra – e ve ne sono grato – una grande
disposizione all’ascolto. Una sensazione del tutto diversa rispetto a quando
sono andato a testimoniare nell’ultimo processo contro Armando Verdiglione. Lì,
ho avvertito una predisposizione preconcetta, un atteggiamento già orientato
contro quel che la parola chiede di più: l’ascolto. Senza ascolto, la parola è
morta, anzi, non è neppure più parola. Mi sono chiesto che cosa andavo a dire
in questo tribunale. Non sono in grado di entrare nel particolare degli aspetti
giuridici, anche se capisco che c’è una modalità pregiudiziale di agire nei
confronti di Verdiglione e del suo modo di accogliere, di dire, di scrivere.
Da Armando
Verdiglione ho imparato tante cose. Ho scritto intorno alla sua teoria, la
cifrematica, non su di lui, né sulla cifrematica. Ma, prima di
tutto, ho letto Verdiglione, perché è la lettura ciò che importa di più, mentre
la scrittura è trascrizione della lettura. Se dico queste cose a voi, vedo che
assentite, anche con il movimento del capo. Ma in una situazione come quella
vissuta in quel tribunale, ciascuna cosa che dicevo perdeva senso. L’incontro
con Armando Verdiglione è molto antico: risale al 1973, dopo che scrissi una
recensione degli atti del secondo convegno del Movimento Freudiano
Internazionale, Psicanalisi e semiotica, pubblicato da Feltrinelli.
All’epoca non conoscevo ancora Armando Verdiglione, ma ero interessato agli
interventi di quel convegno. In seguito, invece, ho partecipato sempre ai
convegni organizzati dal Movimento, fino a quando non è intervenuto quello che
potremmo definire un “fermo di polizia”.
Sulla base
di una lettura molto partecipata, ho scritto due libri intorno alla cifrematica,
La cifrematica e l’ascolto, nel 2006, e La dissidenza cifrematica,
nel 2008, che poi ho utilizzato all’interno del mio insegnamento di Semiotica all’Università
di Bari, fino al 2012, presso il dipartimento di Pratiche linguistiche e
analisi dei testi, che di recente è stato accorpato ad altri dipartimenti. Ho
messo questi libri nelle mani dei miei studenti e ne ho ricavato un grande
interesse, un senso di leggerezza e un ampio respiro, come se avessi aperto
loro una finestra.
Nel mio
secondo libro, La dissidenza cifrematica, all’inizio di ciascun capitolo
ho posto in esergo brani tratti da libri di Armando Verdiglione, per i quali i
miei allievi si entusiasmavano molto, soprattutto quando leggevano frasi come
“Vivendo, non abbiamo il tempo di studiare!”, a cui aggiungevo: “Questi libri
non sono da studiare, ma da leggere!”. Era intesa come una frase di liberazione.
A volte continuavo, per esempio, rivolgendomi a una ragazza, con un paragone di
questo tipo: “Supponi di uscire alla sera con un ragazzo, vi vedete più volte
e, a un certo punto, lui dice: ‘Sai perché ci vediamo ogni sera, sai perché ti
chiedo di uscire? Perché ti sto studiando!’. A chi piacerebbe sentirsi dire di
essere studiati? Allora perché questi poveri testi voi dovete soltanto studiarli?
Che cosa vi hanno fatto di male?”. Dunque, vivendo, non abbiamo il tempo di
studiare. Abbiamo il tempo di scrivere e di leggere. Nel mio libro ci sono
anche altre frasi di Verdiglione molto significative: “La rivoluzione
incomincia con il rinascimento: l’esperienza è originaria. È un’accezione di
‘esperienza’ mai intervenuta prima e contro cui il discorso comune prosegue. Il
discorso comune è il discorso dei governanti, il discorso politico, il discorso
della guerra” (La nostra salute, pag. 14). Queste parole sono
attualissime, in un momento in cui, dopo avere piagato il mondo, ci si
meraviglia che da quelle piaghe escano emorragie, comprese le migrazioni
attuali di profughi, che cercano un posto dove potere appoggiare i piedi. Poi, certamente
ci sono l’Isis, il terrorismo. Ma chi ha piagato il mondo? Altro che il
processo a Verdiglione!
Quest’altra frase
attiene alla mia esperienza in modo particolare, come “cultore della materia”:
“Il materialismo, se fosse semplicemente il contrario dell’idealismo,
formerebbe una visione del mondo proprio consistente nella cancellazione della
materia”. In Verdiglione c’è sempre la dissipazione della visione manichea di
bene e di male. Come nella sua considerazione di Babele, c’è un recupero
positivo della “babelicità”, di una Babele felice, non basata sull’uno e
sull’identità! Voglio leggere quest’ultima frase, che poi è posta all’inizio
del mio libro: “Nessuna comunità, nessuna totalità del discorso, nessuna
padronanza sulla parola. Le egemonie l’hanno sempre cercata, gli imperi si sono
esercitati innanzi tutto come imperi sulla parola”.
Ricordo che
Verdiglione ha sempre distinto la libertà della parola dalla libertà di
parola. Libertà di parola vuol dire che la parola è mia e ne faccio quello
che voglio; prendo la parola, cedo la parola. Libertà della parola vuol dire
lasciare la parola libera.
A proposito
della questione se il discorso di Verdiglione sia difficile o facile, verrebbe
da dire che è un discorso difficile. Ebbene, i miei studenti lo trovano facile,
trovano più difficile il discorso di certi miei colleghi. Verdiglione parla del
modo comune di tagliare corto: “Non ti capisco, quindi ti nego la possibilità
di fare quello che stai facendo: mentre ti sto dichiarando la mia ignoranza, ti
sto accusando e ti sto dicendo in maniera molto forte che non devi comportarti così!”.
Oppure, c’è un altro modo di stroncare ciò che infastidisce, dicendo: “Io non
capisco!”. Ma se non capisci, stai zitto!
I miei
studenti hanno vissuto questi libri in questo modo. Sono miei libri, li ho
scritti io, ma vi si parla la cifrematica, in quanto sono effetto della mia
lettura dei libri di Verdiglione.
L’articolo di Augusto Ponzio è tratto dal dibattito
La materia del Paradiso, ovvero la questione Verdiglione, Bologna, 3
marzo 2016.