LA BARACCA SUL MARE PER I SEGUACI DELLA TERRA
Lungo il nostro viaggio per
esplorare quali sono oggi “i seguaci della terra” (per riprendere il titolo di
questo numero della rivista), siamo approdati alla Baracca sul Mare della
stilista Daniela Dallavalle, a Carpi, nel cuore del distretto divenuto emblema
di eccellenza nel tessile abbigliamento italiano. Più che una semplice stilista,
lei è come l’artista che Leonardo da Vinci descriveva come colui che “gareggia
con la natura” e “dà la vera notizia delle cose” scrivendo con il pennello:
Daniela Dallavalle scrive con i suoi capi, perché ciascuno di essi racconta una
storia, e lo fa con i colori della natura, ma soprattutto con il bianco, che
prevale in tutte le sue collezioni. Bianca è anche la sede avveniristica e
completamente indipendente dal punto di vista energetico, in cui la sua
azienda, Daniela Dallavalle Spa, si è trasferita alla fine dello scorso anno:
uno spazio di luce, in cui si respira aria di libertà, un vero e proprio
capolavoro di architettura, dove, tra l’altro, vengono presentate le anteprime
delle collezioni dedicate ai suoi tre figli Elisa, Riccardo e Eleonora Cavaletti,
nonché la linea di home collection, Arte Pura.
Perché l’ha chiamata Baracca sul
Mare?
Prima di tutto non volevo una sede
da mostrare al mondo, ma un luogo di ospitalità, dove accogliere i clienti — i lovers,
come li chiamo io — provenienti da tutto il pianeta, ma anche i vicini, i
cittadini che vogliono organizzare incontri culturali e artistici e ciascuno
che vuole avvicinarsi al mio lavoro, come gli studenti che collaborano al
progetto Eco wedding promosso dall’istituto Vallauri, che sono venuti
qui in febbraio. L’accoglienza e l’ospitalità sono nelle mie radici: i miei
genitori avevano un’agenzia di rappresentanza nella moda a Carpi e la nostra
casa era sempre frequentata da persone di tanti paesi e culture diverse. Noi
stessi viaggiavamo ovunque, in lungo e in largo, e per chi viaggia l’ospitalità
ha un’importanza fondamentale, penso che a ciascun viaggiatore piacerebbe
trovare un posto in cui entrare senza tante formalità, proprio come una
baracca. Non ho mai amato le convenzioni sociali, i conformismi, le mode. Le
mie creazioni sono frutto dei viaggi e dell’incontro con la materia, le
persone, la bellezza e tutto ciò che partecipa a un processo incessante di
ricerca dell’unicità. Ciascuna cosa, ciascuno di noi, racconta una storia e non
ci sono individui di serie A e di serie B. Questa constatazione viene dal più
grande dono che ho ricevuto dai miei genitori: l’umiltà dell’ascolto. Tutte le
sere c’era una festa in onore di qualche cliente che veniva da lontano nella
nostra casa e mia sorella e io, per quanto piccole, non potevamo lasciare la
compagnia, non potevamo essere stanche, perché gli ospiti erano sacri. Poi, un
bel giorno, fui costretta a lasciare il nido familiare per recarmi in Germania,
dove un’azienda dei miei genitori aveva bisogno di me. Allora, mi dissi che
anch’io un giorno avrei costruito un posto dove ospitare gente da tutto il
mondo: la mia Baracca sul Mare così divenne il mio sogno.
Ma il sogno trovò l’occasione per
scriversi solo in seguito al terremoto che ha colpito duramente la nostra terra
nel maggio 2012. Quando mio padre ci portava in montagna, camminavamo,
respiravamo, ascoltavamo e scoprivamo tante cose, che ci facevano apprezzare la
natura. Ma dopo il terremoto la terra era diventata spaventosa e ce ne stavamo
lontani da quelli che prima consideravamo i nostri nidi. È stato un momento
difficile, finché un bel giorno mi sono detta: “Non posso vivere con la paura,
bisogna che faccia pace con la terra”. Questo voleva dire ascoltare quello che
essa ci stava dicendo, capire come si stava trasformando l’ambiente e imparare
a vivere insieme a ciò che muta, anziché considerarlo nemico. Così, con i miei
tre figli, siamo stati per un giorno e mezzo seduti su una coperta in un prato:
volevo ritrovare quell’emozione forte che nasce dal contatto con la natura ed
eliminare il senso di avversità che regnava in noi per la paura delle scosse.
Avevo deciso di non rientrare fino a quando non saremmo riusciti a ritrovare la
vicinanza e l’amore per la natura, e così è stato. Proprio in quei giorni, il
progetto della Baracca sul Mare è diventato un programma, che ha richiesto
circa tre anni per giungere al suo compimento. Alcuni rimangono stupiti quando
sentono la parola “baracca”, ma è un termine presente nella morfologia della
maggior parte delle lingue indoeuropee.
E il mare?
Quando mio padre ci portava in
montagna, arrivati sulle vette, si apriva davanti a noi un orizzonte
lontanissimo, dove io immaginavo di vedere il mare: il mare è il sogno da
raggiungere con sacrificio. E credo che ciascuno abbia un sogno che coltiva,
magari inconsciamente: è ciò che lo spinge a salire, anche quando la difficoltà
sembra insormontabile.
Lei diceva che i miei capi
raccontano, ma anche le persone hanno qualcosa da raccontare e la Baracca sul
Mare è nata per ascoltare, un po’ come facevo da bambina, le storie di chi
viene a trovarmi, perché il vero commercio è questo, è quello scambio per cui
ciascuno dà qualcosa che non si esaurisce con il prodotto venduto: più che
vendere e acquistare, a me piace dire che nel commercio si tratta di spostare
un oggetto da una persona all’altra, da un luogo all’altro, ciò che conta è
vedere la persona sorridere e raccontarmi la sua storia, così come un capo
racconta la propria e io racconto la mia. La base delle mie creazioni sta qui,
nella curiosità che mi ha accompagnato fin da bambina, quando mia madre portava
me e mia sorella alla scoperta dei luoghi più lontani e impensati. Dell’India,
per esempio, ricordo quella volta in cui siamo state invitate a una festa e
abbiamo visto persone nude che vivevano sugli alberi.
Sarebbe interessante narrare le sue
avventure e in che modo le impressioni dei viaggi entrano nelle sue
invenzioni...
Mia madre ci portava spesso nelle
grandi metropoli, dove incontravamo di tutto: dalla miseria più nera agli
ambienti artistici più raffinati, sempre comunque in mezzo alle persone. È
stato un regalo non indifferente.
Oltre alle avventure di viaggio,
lei poi ha intrapreso quella imprenditoriale...
Non fu facile per me lasciare il
nido, tanto più se pensavo a quanto mi avevano dato i miei genitori: la valigia
bianca che si vede all’entrata della Baracca, nello spazio che ho chiamato “la
deriva”, rappresenta bene quel momento. Ma credo che sia stato utile allora,
come lo è tuttora, l’incontro fra il rigore teutonico (insito nella cultura di
mia madre, tedesca), da una parte, e il gusto per l’arte e l’invenzione (che
veniva da mio padre, italiano), dall’altra. La mia avventura attuale però è
anche frutto di una condivisione con mio marito, Giuliano Cavaletti, che da
trent’anni mi sostiene in ciascuna fase dello sviluppo, e con i miei
collaboratori, che interpello sempre prima di prendere decisioni importanti,
perché sono loro poi a lavorare costantemente per dare operatività e
concretezza ai progetti. E devo dire che posso constatare in ciascun
collaboratore quelle doti fantastiche che distinguono gli italiani, come la
capacità di ingegnarsi per trovare sempre nuove soluzioni e invenzioni.
Come si può capire dalle mie
parole, amo l’Italia, perché è un concentrato di meraviglie: le persone, il
cibo, l’arte, il paesaggio, la letteratura, la musica e tante eccellenze. Tutte
cose però che spesso gli italiani non valorizzano abbastanza o di cui si
accorgono solo quando vanno all’estero, mentre in patria rischiano di limitare
la propria percezione ai mille problemi e alle mille difficoltà, non ultima la
burocrazia, che grava sulle imprese e sui cittadini, fino al punto da fare
dimenticare loro il patrimonio che hanno in mano e che potrebbe essere la
principale fonte della loro ricchezza. Questo è un messaggio forte che vorrei
dare a tante persone e a tante aziende.