LA POESIA, ESSENZA DELLA COMUNICAZIONE

Qualifiche dell'autore: 
poeta, scrittore, direttore della rivista “Steve”

Ringrazio Anna Spadafora per questa importante occasione d’incontro con Serge Gavronsky (“Words are my life”. La psicanalisi, l’impresa, la scrittura, Villa Corte dei Melograni, Modena, 17 luglio 2013), con il quale abbiamo in comune non soltanto l’amicizia con Paolo Valesio, ma la letteratura, non solo italiana, ma anche francese, nordamericana e in fondo la letteratura del mondo. Abbiamo in comune l’esercizio della traduzione: Gavronsky, oltre a insegnare da cinquant’anni al Dipartimento di francese del Barnard College alla Columbia University, di cui è direttore, è uno dei più importanti traduttori di poesia francese moderna, mentre io ho tradotto dal francese in italiano opere di Pierre Albert-Birot, Jean Tardieu, Jacques Henric e, nella mia rivista “Steve”, ho fatto tradurre in anteprima e ho pubblicato diversi poeti americani del ventesimo secolo, da Wallace Stevens a David St. John a Charles Simic, Robert Pinsky e altri, prima che venissero pubblicati da grandi editori; abbiamo in comune l’amore e la passione per la scrittura.

Sarei molto felice di conversare lungamente con Serge Gavronsky, magari in francese, che è la sua lingua d’origine, anche perché mia moglie, Marie-Louise Lentengre, è stata una famosa critica francese, purtroppo scomparsa, che ha lasciato studi importanti su Apollinaire, su Tardieu e sul novecento francese. Mi è gradito ascoltare la voce di un poeta, traduttore e critico, che ha fatto molto per unire le due sponde dell’Atlantico dal punto di vista letterario, e non solo, perché quando si collegano le due sponde della medesima storia – la storia dell’America appartiene per molti secoli a quella dell’Europa – si crea qualcosa che ha un suo valore intrinseco, a prescindere dagli studi, dalle edizioni e dagli incontri che possono derivarne.

Considerando il suo straordinario curriculum, non oso nemmeno impostare uno dei tanti temi che sarebbe possibile affrontare e lascio a lui la parola su quell’aspetto peculiare che è la cifra della scrittura poetica, che poi è la cifra del testo che, con la traduzione, passa da una lingua all’altra. Nel 2006 ho partecipato, alla Columbia University, a un convegno proprio sul tema dei “canoni” che stanno sparendo. Nella società contemporanea alcuni canoni letterari tradizionali stanno dissipandosi lentamente, soppiantati da qualcosa di uso più immediato. E quel convegno voleva analizzarne le conseguenze, sul piano della critica e dell’interpretazione; e voleva anche indagare se ciò che noi diciamo poesia, scrittura creativa, relazione, comunicazione, approfondimento – psicanalisi, direbbe forse Anna Spadafora – abbia ancora un valore, se ci sia ancora una proiezione nell’immaginario che possa essere recepita da noi, da voi, dal pubblico. Ma non vorrei fare un discorso di tipo sociologico per spiegare ciò che oggi viene meno – una tradizione di scrittura e l’idea di civiltà che si forma intorno alla scrittura – dicendo semplicemente che c’è una tipologia di produzione industriale che tende ad appiattire, a globalizzare. Non può essere soltanto questa la spiegazione. Sono convinto che la letteratura, la poesia, la scrittura, la civiltà sia comunque una “impresa” pionieristica, nel senso che è lasciata all’iniziativa individuale, alla progettazione e al fatto che ci sono meccanismi espressivi mai definitivi, e sempre da acquisire.

In tutte le università americane in cui sono intervenuto, dal Wisconsin, al Vermont, a New York, a New Haven, ho provato a teatralizzare la parola poetica, a metterla in scena, a recitarla, anche con qualche ausilio di tipo teatrale, ma non riducendola a un fatto teatrale. La letteratura in definitiva da millenni obbedisce a codici che hanno una loro proiezione nell’immaginario, una loro ricezione molto specifica. In breve, si parla della scrittura e, nel momento in cui la scrittura diventa scenica o va in scena, il codice cambia: diventano prevalenti la voce, il corpo, la recitazione, l’impianto, la scena, le luci, il tempo, la misura della parola detta e non della parola scritta. C’è ancora qualcuno che si sorprende che la poesia possa essere messa in scena. Nessuno si meraviglia invece se dico che la poesia passa per essere una delle produzioni più noiose che circolano, specialmente in Italia, noiosa nel senso della ripetitività. Mentre la poesia è esattamente l’opposto: è reinvenzione, è ricostruzione, è passaggio da un piano semantico a un altro, da un piano di lettura a un piano di ricezione. La poesia è di fatto l’essenza stessa di una comunicazione “sensata”, in cui il rapporto fra chi emette e chi riceve si istituisce in modo assolutamente fruttuoso, arrivando a creare un elemento terzo, una figura intermedia tra chi pronuncia e chi ascolta. In un libro scritto a quattro mani, William S. Burroughs e Brion Gysin, alla fine degli anni cinquanta, hanno inventato le tecniche note come cut-up e fold-in: quando una mente incontra un’altra mente – affermano – si crea una terza mente che fa da collegamento a entrambe; infatti hanno intitolato il loro libro The Third Mind. Me ne sono servito anch’io, e in realtà il fold-in è una tecnica di collage praticato a livello artistico, ma che può esistere nella parola scritta. In fondo Burroughs e Brion Gysin non hanno scoperto niente di particolarmente nuovo, hanno rilanciato quel che è nella specificità della parola poetica. Come nella traduzione, in cui accade regolarmente.

***L'articolo di Carlo Alberto Sitta è tratto dal dibattito che si è tenuto il 17 luglio 2013 intorno ai libri di Serge Gavronsky editi da Spirali  (“Words are my life”. La psicanalisi, la scrittura, l’impresa, Modena, Villa Corte dei Melograni).